LA DEMOCRAZIA IN FALLO

di R.B.

Viaggiando in direzione di Ginevra, il primo giorno del mio nuovo incarico di docente all’Università di Sion, leggo che il Paese che fino a qualche giorno prima era per me simbolo di emancipazione e di diritto (quello in cui, per esempio, capita di avere un contratto di insegnamento esclusivamente grazie alla produzione scientifica) diventa un modello di riferimento pure per una certa parte del Paese tendenzialmente secessionista, non proprio multiculturalista e apparentemente gelosa della conservazione delle tradizioni cristiane (o celtiche?). C’è qualcosa che non va…

 

Un fatto, ormai, è noto a tutti: l’esito del referendum propositivo, promosso dalla destra e dall’estrema destra elvetica, ha deciso che non verranno costruiti minareti sul territorio svizzero. Secondo elettrici ed elettori, i 4 minareti già presenti bastano ed avanzano. Le discussioni sollevate da questa decisione negli ambienti politici e culturali – ma anche la stessa proposta di indire un referendum sulla questione – dimostrano ancora una volta il ruolo giocato dai luoghi nella configurazione e definizione dello spazio urbano delle città europee e nella formazione delle identità. Lo spazio, infatti, non è un semplice sfondo, una piattaforma, un palcoscenico sul quale si svolgono le vicende umane: è esso stesso produttore di valori ed opinioni e veicola un’idea e un progetto sociale e politico. Il progetto di ciò che vogliamo essere e soprattutto di ciò che vogliamo diventare.

 

Dall’enfasi data al minareto si evince come anche sul tema dello spazio si giochi la sfida del cosmopolitismo. Scegliere (ed imporre) che il minareto non debba far parte dello skyline urbano, che nel territorio debbano essere incisi solo i simboli di una certa identità, non significa fare un atto di libertà e di salvaguardia di supposti valori locali. Vuol dire fare un atto di violenza e mettere a tacere una serie di voci plurali. Significa, soprattutto, non sapere che ‘decidere’ quale sia la ‘giusta’ identità significa soffocare chi non si sente rappresentato da quell’identità definita; annichilire chi, anzi, sente di non avere un’identità rigida e stabile e rivendica il proprio diritto a costruirsene una fluida, magari in mutazione. E qui non mi riferisco solo alle musulmane e ai musulmani di origine straniera (quando parliamo di Islam tendiamo spesso a dimenticare che ci sono anche molte italiane e italiani che hanno scelto questa religione) ma anche chi, pur rispettando un sentimento diverso, non vede nel crocifisso un elemento basilare della propria identità (nazionale, europea, individuale o, forse, tutto questo messo insieme) e ritiene la bandiera un simbolo tra gli altri della costruzione dello Stato-Nazione, così come spiega in maniera magistrale Benedict Anderson nel suo celebre Comunità Immaginate (Manifesto Libri, 1996).

 

La geopolitica critica, come scrivono Claudio Minca e Luiza Bialasiewitcz (Spazio e Politica, Cedam, 2004) e poi Elena dell’Agnese (Geografia politica critica, Guerini Scientifica, 2005), ha rintracciato i meccanismi di costruzione dell’identità nazionale, ma soprattutto ha disvelato le pratiche discorsive (secondo la concezione foucaultiana di discorso) che supportano questa costruzione.

 

Applicando proprio questi strumenti decostruzionisti, quindi, il dibattito lanciato in Italia dalla Lega –  secondo la quale sulla bandiera italiana dovrebbe essere aggiunto un crocifisso – rivela un paradossale corto circuito. I nazionalisti “doc” reagiscono stizziti, poiché comprendono che una ipotetica mescolanza dei due simboli finirebbe per indebolirli entrambi; i proponenti – che, a dire il vero, non si sono mai dimostrati particolarmente appassionati al tricolore, tanto da consigliarne pubblicamente usi decisamente impropri anche agli occhi di una analisi decostruzionista – si dicono indignati, asserendo di non comprendere il mancato supporto di massa ad una tanto meritoria proposta.

 

La questione di fondo, però, rinchiude in sé tutta l’aggressività del discorso nazionalista, che tende, in modo irrealistico e nel nostro tempo davvero irrealizzabile, ad imporre ‘UNA identità’, unica ed inviolabile. Tale logica esclusivista sottintende un ragionamento spaziale, dal momento che dettando gli elementi essenziali dell’inclusione in una comunità di riferimento e all’interno di un territorio nazionale (quindi delimitato da confini tanto fisici che mentali), ne delinea in absentia quelli dell’esclusione. Ecco riprodotto lo schema dicotomico dentro/fuori, esterno/interno che ben si traduce nella frase popolare “con noi o contro di noi”.

 

Anche il manifesto iconografico del referendum riprende in maniera efficace questa stessa contrapposizione. Usa la bandiera svizzera quasi come se fosse una carta geografica, sulla quale non sono riportate città, villaggi o paesini di montagna, ma solo minareti. Possiamo anche paragonarla ad una rappresentazione prospettica di un ambito spaziale, in cui gli ‘innocenti’ simboli iconografici che generalmente indicano i luoghi (di solito, punti, circonferenze o quadrati) sembrano emergere dal territorio per imprimersi in maniera efficace nell’immaginario della lettrice o del lettore. Il senso comune fa poi il resto, suggerendo, come di norma avviene, la tacita idea che la carta sia il territorio e non una sua mera rappresentazione.

 

Ecco quindi che i minareti neri dell’immagine perdono il loro senso religioso per assumere quello dell’aggressione; trasformati in una sorta di missili, si impongono prepotentemente sulla bandiera elvetica, simbolo della ‘nazione svizzera’, per andare ad alimentare il discorso sul nemico interno.

 

È lo stesso “discorso” che è stato utilizzato dalla destra francese per legittimare l’idea del controllo delle banlieue e della relativa politica della sicurezza, veicolato in salsa mista in ogni tempo dai mass media e in particolare dalla televisione e dal cinema; qualcuno ricorderà un telefilm, in voga diversi anni fa, in cui degli extra-terrestri Visitors, all’apparenza indistinguibili dai pacifici terrestri, improvvisamente si trasformavano in orribili creature che avevano il solo scopo di soggiogarli; oppure, tra i tanti esempi possibili di un certo successo, il film Attacco al potere – con Denzel Washington, Annette Bening e Bruce Willis (1998), in cui Samir, uomo di origine palestinese che vive negli USA, si rivela in realtà un pericolosissimo (ed evidentemente profondamente ingrato) terrorista che trama contro la nazione.

 

Questa retorica alimenta le fobie, richiamando una delle paure più grandi: quella della terra-madre-patria violata, stuprata o ingannata da chi ha accolto e allevato, per poi vedersi tradita e accoltellata alle spalle (non è un caso che l’immagine di propaganda referendaria riporti in primo piano una donna velata della quale si scorgono solo occhi minacciosi).

 

La ferita che sarà subito visibile, però, è quella di un territorio usato, strumentalizzato, in cui il segno della violenza è rappresentato dall’assenza o, come forse direbbe Giuseppe Dematteis, dai “buchi nel paesaggio”: la mancanza di quei minareti che, diventando elementi del paesaggio urbano, avrebbero potuto favorire col tempo la ‘naturalizzazione’ di certi simboli per l’occhio europeo, che si sta abituando a poco a poco a ‘vedere’ elementi caratterizzanti la vecchia Europa mischiati a quelli della nuova. Non mi riferisco solo a luoghi religiosi, come la moschea o la chiesa, ma anche ai luoghi della quotidianità, in cui la jallaba delle marocchine è stesa sullo stesso filo da cui pende la camicia da notte della ‘dote’ delle italiane sulle ringhiere dei cortili. Un paesaggio che smetterà ben presto di essere simbolo della diversità per diventare simbolo della ‘normalità’, al punto tale da passare magari inosservato e, perché no, essere dato per scontato. Quel giorno, forse, sarà anche lo stesso in cui non ci verrà più da sorridere se per l’Aid al Adha (la festa del sacrificio, la ricorrenza più importante per la comunità musulmana), il piatto di agnello sacrificato sarà preceduto dal risotto alla milanese e seguito dal tiramisù…

 

Non possiamo pensare che qualche alto esponente politico creda veramente che mentre “il campanile rappresenta una comunità”, il minareto abbia solo “un forte contenuto simbolico, che travalica la dimensione religiosa”. Possiamo solo provare ad interpretarlo, supponendo che voglia fare riferimento diretto a tutta quella letteratura femminista che pensa che il campanile, il minareto e i grattacieli abbiano di certo un forte valore simbolico: quello fallico…

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