HOPENHAGEN VS FLOPENHAGEN? COP-ENHAGEN

 di SM

Sono passati esattamente dieci giorni dalla chiusura della Cop 15, un tempo ragionevole per farci passare la sbornia mediatica e ‘ritornare sul pezzo’, come era stato promesso nella nota di qualche settimana fa.

La prima domanda legittima, neanche si sia trattato di una grande manifestazione sportiva, è: ‘ma come è finita? Hopenaghen o Flopenhagen?’ In questa sede, come già era stato chiarito nella prima nota, più che sui contenuti, ci interessa riflettere sul piano delle ricadute geografiche e politiche della Cop, cioè della ‘Conferenza delle Parti’. Infatti, ancora una volta, di questo si è trattato: non solo di una conferenza sul clima, ma di una gara corsa dalle Parti,  non così distante, se si vuole, da una maratona. A cinque giorni dall’inizio della Conferenza, il 3 dicembre, chi scrive si chiedeva se, dopo il 18 dicembre, questa maratona si sarebbe corsa nello ‘spazio delle Cop’ o altrove. In questo senso va rilevato che qualche giorno fa Alessando Lanza su www.lavoce.info ha argomentato molto efficacemente la tesi del flop non solo sul piano del contenuto del Copenhagen Accord, ma provando a immaginare i nuovi rapporti di forza emergenti da Copenhagen (http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001474.html). Volendo integrare la sua analisi, sottolineando ulteriori implicazioni geopolitiche, bisogna ritornare agli scenari sui quali si è mossa la Cop15. Proprio da qui forse occorre partire per capire il risultato finale della gara disputata in Danimarca. Continuando a ricorrere alla metafora sportiva è necessario, dunque, individuare gli atleti in corsa, descrivere il percorso e scrivere una cronaca. Proviamo a farlo concentrandoci ancora una volta sullo ‘spazio della Cop’, trascurando, come è naturale, diverse altre implicazioni di carattere politico e scientifico.

Mediaticamente la Conferenza delle Parti è stata raccontata dando ampio risalto alle dichiarazioni dei capi di stato o dei ministri che hanno partecipato alle giornate di Copenhagen. Rasmussen ha aperto la Cop15 annunciandola come un momento chiave per accendere la speranza di un futuro migliore. Brown e Sarkozy, nella seconda settimana dei lavori, hanno definito catastrofico un eventuale fallimento della Cop15. Ilary Clinton ha richiamato più volte l’attenzione sulla necessità di un accordo largamente condiviso, per dare il là ad un nuovo corso. Eppure lassù, all’interno del ‘Bella Center’, tra oltre 40.000 partecipanti accreditati e 115 capi di stato, numeri che hanno fatto della Cop15 la conferenza ONU più partecipata di sempre, i contendenti in campo si sono misurati secondo rapporti di forza molto più complessi rispetto alle pozioni dei singoli rappresentanti politici. Nelle Cop infatti le parti sono abitualmente organizzate in ‘gruppi regionali’ che molto spesso agiscono politicamente, rilasciando dichiarazioni e presentando istanze, in modo unitario. Il Gruppo77+Cina che comprende oltre 130 membri, la maggior parte dei quali definiti in sede ONU come ‘paesi in via di sviluppo’ (al suo interno include tre principali gruppi d’interesse: l’African UN regional Group,  l’alleanza dei Small Island States e  il gruppo dei Least Developed Countries); l’Unione Europea;  l’Umbrella Group, un gruppo molto spesso descritto come informale che comprende paesi che hanno un differente grado di coinvolgimento nel Protocollo di Kyoto (Australia, Canada, Islanda, Giappone, Nuova Zelanda, Norvegia, Federazione Russa, Ucraina e USA) e l’Environmental Integrity Group comprendente Messico, Corea e Svizzera. In questo quadro vanno, dunque, lette le dichiarazioni rilasciate dai vari protagonisti durante le scorse settimane, ad esempio quella del segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon che, in apertura, ha indicato la necessità di un nuovo accordo frutto del dialogo tra queste parti e non di iniziative di singoli paesi o di accordi portati avanti parallelamente alla Cop15.

Dichiarazione che sposta l’attenzione sul campo ove questi gruppi si sono misurati, ovvero la discussione sui due main bodies sui quali è stata strutturata la dopo Bali: i risultati del gruppo di lavoro (AWC-KP) sul protocollo di Kyoto, e i progressi del gruppo di lavoro (AWC-LCA) dedicato alle azioni a lungo termine nell’ambito più allargato dell’UNFCCC. Ciò significa che il terreno sul quale, in partenza, avrebbe dovuto progredire la discussione durante la Cop15, non era l’impegno dei singoli paesi di fronte al cambiamento climatico, quanto il completamento degli sforzi scientifici e politici di due commissioni attive da molto prima del dicembre 2009, e impegnate, rispettivamente, sul fronte dell’aggiornamento del Protocollo di Kyoto e della definizione di misure collettive a lungo termine.

A questo punto si può provare a scrivere la cronaca della Cop15. Volendo sintetizzare le centinaia di dichiarazioni e di prese di posizione (per le quali si rimanda nuovamente a http://www.iisd.ca/climate/cop15) che hanno caratterizzato la Conferenza, occorre chiarire che la corsa si è svolta sostanzialmente in tre tempi, come una maratona: una lunga prima metà, una lunga seconda metà, e pochi brevissimi metri finali.

La prima ha coinciso, a grandi linee, con la settimana iniziale ed è stata caratterizzata dal ruolo portante esercitato dell’UE. Durante i primi giorni al centro del dibattito c’è stato un rumor circa un possibile Danish-Text, già formulato prima dell’apertura della Cop senza il coinvolgimento di tutti i gruppi regionali, da presentare quale piattaforma per un nuovo accordo. Contemporaneamente, il 10 dicembre, l’UE ha annunciato uno stanziamento (tra i 1,8 e 5,4 miliardi di euro) per le misure a breve termine in materia di cambiamento climatico.

Entrambe le dichiarazioni, tuttavia, parevano concretizzarsi all’esterno dello spazio della Cop, ovvero oltre i limiti chiari dell’azione dell’AWC-KP e dell’AWC-LCA, di conseguenza la seconda settimana si è aperta con una nuova fase della Conferenza, caratterizzata da una decisa difesa da parte dei membri del Gruppo77+Cina nei confronti dell’originaria piattaforma di discussione centrata sul Protocollo di Kyoto. Difesa culminata con l’abbandono dei lavori da parte dell’African UN regional Group,  ma soprattutto con l’ascesa alla ribalta della Cina che ha segnato la fase centrale della Conferenza. Il protagonismo cinese si è manifestato soprattutto su tre fronti: la critica agli impegni UE e USA definiti poco chiari e inadeguati, la difesa dello spazio Cop come unico ambito legittimo di discussione e, infine, il richiamo alla necessità di una ‘short political declaration’ condivisa da tutti, dalla quale ripartire dopo Copenhagen.

Si giunge così agli ultimi metri che possono risultare decisivi per l’esito di una corsa. Venerdì 18 dicembre, durante un meeting tra i capi di stato di Cina, India, Sud Africa, Brasile e USA (gruppo in qualche modo coincidente con quello richiamato pochi giorni prima da Medvedev ad un impegno più fattivo), viene stilato un documento breve, subito battezzato the Copenhagen Accord, in seguito sottoposto agli altri partecipanti alla Cop per un’accettazione che è apparsa molto simile ad una presa d’atto formale, con poche possibilità di discussione, visto il peso dei cinque paesi nel contesto politico e economico globale.

I punti salienti del documento (scaricabile in versione provvisoria su http://unfccc.int/files/meetings/cop_15/application/pdf/cop15_cph_auv.pdf) sono sintetizzabili con la definizione di una soglia di 2 gradi centigradi entro la quale limitare l’aumento della temperatura media del pianeta, con l’impegno di stanziamenti economici verso i paesi in via di sviluppo economico per circa 30 miliardi di dollari per il triennio 2010-2012 e 100 miliardi dal 2020 in avanti, e con la prospettiva che il 2010 sia un anno di lavoro per la preparazione di un nuovo accordo legalmente vincolante nel corso della prossima Cop.

Ma allora come è finita? Hope or Flop? Pare chiaro che la risposta non vada cercata sul piano dei contenuti dell’Accordo di Copenhagen, quanto piuttosto nello spazio dove tale documento è stato pensato, scritto e reso pubblico, ovvero esternamente alla Cop15. Al di fuori non solo del dibattito tra i gruppi regionali e dei contenuti elaborati dal AWC-KP e dal AWC-LCA, ma anche oltre la stessa evoluzione che la Cop ha seguito. L’Accordo sembra porsi su un piano che oscura l’impegno UE che ha caratterizzato la prima metà della Conferenza, e porta a ripensare il protagonismo in difesa di Kyoto da parte della Cina. Ancora una volta gli ultimi 195 metri hanno deciso tutto, o quasi, consegnandoci un 2010 di attesa per una nuova Cop, senza una chiara road-map sulla quale lavorare per un nuovo accordo vincolante, ma soprattutto con una decisa delegittimazione di alcuni dei protagonisti degli ultimi dodici anni di lavoro: l’Unione Europea, il Giappone e, forse, la Cop stessa.


Per un ulteriore approfondimento e uno sguardo geografico si rimanda anche a http://aag-cop15. blogspot. com, il blog curato dai membri dell’AAG che hanno partecipato alla Cop15.

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento