CI SARANNO ANCORA LUOGHI E SPAZI? NOTA SULL’ANNUNCIATA DECURTAZIONE DELLA GEOGRAFIA NELLA SCUOLA ITALIANA

Luogoespazio.info e Enrico Squarcina

* Articolo pubblicato su Carta Anno XII – 12/18 febbraio 2010

Spesso quando si argomenta è necessario chiarire immediatamente il campo sul quale ci si intende muovere. Evitare, per quanto possibile, il fraintendimento e la banalizzazione del proprio ragionamento. A volte è utile partire dai fatti. Materia certamente falsificabile, ma anche relativamente semplice da presentare al lettore.

Il ‘fatto’ in questione non è il recente ‘via libera’ del Consiglio di Stato che ha consentito al Ministro Gelmini di proporre in Consiglio dei Ministri una Riforma indiscutibilmente svilente per, il già residuale, spazio riservato all’insegnamento della geografia nella scuola italiana. Del resto su questo abbiamo già pubblicato una nota che presenta in sintesi la situazione presente (http://nuke.luogoespazio.info). Neppure l’apertura di una petizione contro tale penalizzazione, che, in meno di dieci giorni, ha contato oltre 10000 adesioni [oggi la petizione si è conclusa, avendo raggiunto la soglia delle 30.000 sottoscrizioni; per più informazioni, clicca QUI].

Il fatto è un altro: in Europa il decennio appena concluso ha rappresentato un ininterrotto e fondamentale momento di riflessione scientifica e istituzionale sull’insegnamento della geografia. Dal 2002 fino a oggi – in attesa di future, non ancora chiare, modifiche strutturali e didattiche sulle quali si è ampiamente discusso a livello pubblico e accademico – in Inghilterra e Galles le scuole dispongono di un curricolo nazionale nel quale la geografia riveste un ruolo fondamentale, in linea con le elaborazioni teoriche e metodologiche condotte da alcuni importanti geografi di quella regione.

In Francia i programmi d’insegnamento continuano a tenere in gran conto la geografia, soprattutto nei primi livelli della scuola. In Spagna l’ordinamento del 2007 connette la nostra disciplina ai più rilevanti obiettivi e temi deputati al curricolo: sostenibilità, cittadinanza, tutela delle risorse ambientali. Recentemente la Deutsche Gesellschaft für Geographie, ovvero l’organizzazione nazionale dei geografi tedeschi, ha pubblicato un documento di riferimento per gli obiettivi dell’insegnamento della geografia nel curricolo di base, enfatizzando nell’introduzione la necessità di creare dei parametri comuni a scala nazionale per il curricolo e di posizionare la geografia secondo il ruolo che le compete in considerazione del suo peso politico e sociale. Gli esempi non si fermano qui.

Nel 2006 sono state redatte la Carta internazionale sull’insegnamento geografico, e, l’anno successivo, la Dichiarazione di Lucerna sull’educazione geografica allo sviluppo sostenibile. In questi stessi anni l’Unesco, attraverso l’istituzione del Decennio dedicato all’Educazione allo Sviluppo Sostenibile, ha enfatizzato la rilevanza dell’insegnamento delle relazioni tra società, economia e ambiente come uno degli obiettivi primari per l’educazione formale e informale del prossimo futuro.

A partire dall’autunno del 2008, il Ministro Gelmini ha costruito la base di legittimazione al suo disegno di Riforma sulla comparazione della scuola italiana con modelli più efficienti, ricordando, in molte occasioni pubbliche, il pessimo posizionamento della scuola e dell’Università italiane nelle classifiche di merito internazionali. E’ possibile che questa comparazione non abbia tenuto conto di uno degli elementi fondamentali per valutare un sistema scolastico: la sua organizzazione curricolare, metodologica e didattica? E’ davvero credibile che ci sia espressi solo in funzione di calcoli economici? Sicuramente non è così. Altrimenti come si spiegherebbe la rilevanza straordinaria data, a tutti i livelli del curricolo, ad un problema spiccatamente disciplinare, ovvero l’insegnamento delle scienze fisiche e naturali, cioè le discipline considerate necessarie per colmare il deficit scientifico che divide i nostri studenti dai brillanti giovani uomini e donne che hanno studiato fuori dai confini dello Stivale? Un deficit più volte definito non solo ‘tecnico’, ma anche ‘culturale’, che ci renderà scarsamente competitivi rispetto alle sfide sociali, tecnologiche e economiche del futuro. Incapaci di produrre dirigenti, tecnici, scienziati e politici in grado di leggere, interpretare e lavorare ‘dentro’ queste sfide.

Ecco i punti nodali: la mancanza di competitività del nostro sistema rispetto agli altri e il ruolo che la scuola riveste come una delle principali cause di questo distacco scientifico, tecnologico e economico.

Pur dando per buono questo ragionamento, sorgono due domande fondamentali: quale disciplina (o quali discipline) può esercitare un peso maggiore in funzione del recupero di questo distacco culturale e scientifico? E, in secondo ordine, quale disciplina è in grado di fornire un quadro di riferimento sui processi, sui cambiamenti, sulle possibilità e sui conflitti che le sfide della contemporaneità ci propongono?
Forse la geografia? Il 18 gennaio del 2008 La Repubblica pubblicò un articolo in cui l’ex Ministro Fioroni si diceva preoccupato del fatto che da un’inchiesta nelle scuole era emerso che il 18 per cento degli intervistati posizionava Pistoia in Nebraska. Sempre nello stesso articolo Gino De Vecchis, presidente dell’Associazione Italiana degli Insegnanti di Geografia, spiegava come tra gli alunni italiani il livello delle conoscenze geografiche fosse molto basso, tanto che molti di loro pensassero che il Po sfociasse nel mar Tirreno o che il Gran Sasso si trovasse nelle Alpi.

Non si è trattato di un caso isolato, spesso leggiamo di inchieste che documentano come la conoscenza geografica occupi gli ultimi posti in tutti i livelli della scuola italiana. Dando, dunque, un grande risalto alla mancanza di una solida conoscenza delle ‘cose’ della geografia e, in qualche modo, confermando il suo ruolo rispetto alle domande che ci siamo appena posti. La spiegazione di tale mancanza viene abitualmente cercata in un mix non precisato tra mancanza di appeal e inadeguatezza del curricolo. Si tratterebbe di una spiegazione molto preoccupante per chi insegna geografia a scuola e, allo stesso tempo, in qualche modo rassicurante e deresponsabilizzante  per chi come noi la insegna in Università. Dall’alto di questa sicurezza proviamo ad ipotizzare che risposte potremmo dare se da un compito scritto svolto qualche anno fa da studenti non frequentanti al secondo anno del Corso di Laurea in Scienze della Formazione risultasse che il “clima Mediterraneo è il clima tipico delle regioni centrali dell’Asia”, ma anche “della costa atlantica del Canada”? Si tratta di banale confusione poco rilevante per chi andrà a insegnare nella scuola primaria dove non si prevede lo studio delle regioni extraeuropee. E se una dozzina di questi studenti ritenesse che “un centimetro di una carta geografica a scala 1:25000 corrisponde a 25 km di territorio”? Sono competenze aritmetiche che non ci riguardano in quando esperti di geografia. E se, ancora, qualcuno di loro ignorasse il motivo, la rilevanza o persino l’esistenza del Protocollo di Kyoto? Non tutti si informano sull’attualità. Se qualche studente sconfessasse apertamente Malthus, mostrandogli che non solo la popolazione mondiale nel XIX e XX secolo non è cresciuta ma è calata fino a 6 milioni di individui? E’ uno studente visionario. O anche se in una prova un candidato sostenesse con sicurezza che il Belgio confina con i Balcani?  Si tratta di una pecca di anacronismo, infatti all’inizio del XIX secolo l’influenza napoleonica si estendeva quasi senza ostacoli tra il Belgio e i Balcani, o forse di un semplice caso di allitterazione (Balcani, Belgrado, Belgio, Bruxelles).

Se al contrario queste risposte risultassero insufficienti, sarebbe davvero  il caso di allarmarsi almeno quanto l’ex Ministro nell’intervista per La Repubblica. O forse di impegnarsi in una riflessione più profonda e di comprendere, finalmente, che la centralità della geografia nella formazione dei cittadini deve essere un punto fermo sia per chi la insegna sia per chi prende le decisioni politiche che riguardano la scuola.
Ignorare i fattori base che influenzano le differenze climatiche non è solo frutto della confusione di un momento, è anche sintomo dell’incapacità di muoversi all’interno di un’elementare comparazione tra fenomeni analoghi in luoghi diversi. Non essere in grado di tradurre una scala cartografica nello spazio reale, non è solo la conseguenza di un’impreparazione aritmetica, ma anche la testimonianza della mancanza di padronanza di uno strumento.

Avere dei problemi a collocare una regione geografica all’interno dell’Europa può essere sintomo di un rifiuto delle nomenclature geografiche, ma anche di un disagio nell’individuare un sistema di coordinate e riferimenti spaziali necessario per la comprensione del contesto politico nel quale è inserito il nostro Paese. Il Protocollo di Kyoto, e gli accordi internazionali in materia di politiche ambientali non sono eventi di cronaca superflui per la comprensione del quadro attuale. Infatti le interazioni tra ambiente e società, le trasformazioni antropiche e le misure politiche messe in atto per contrastarle, sono temi chiave del dibattito politico internazionale.

A chi provasse a risponderci sostenendo che si tratta di un problema legato alla natura stessa della disciplina e/o alla metodologia didattica con cui viene insegnata, potremmo replicare innanzitutto che (forse come nessun’altra educazione) “l’educazione geografica contribuisce a valutare criticamente il proprio stile di vita e le relazioni sociali e ambientali nelle quali siamo immersi e che diamo per scontato” (International Charter on Geographical Education) e che, più generalmente, il “curriculum geografico gioca un ruolo fondamentale  per un’educazione politica, sociale,  etica, umanistica e ambientale”. Ma soprattutto che questa, oggi, è la situazione già penosa e inadeguata nella quale l’insegnamento geografico si trova nella scuola italiana e che su qualunque piano si può accettare una riflessione per migliorarla, ma non su quello di una sua ulteriore diminuzione di peso e rilevanza nel curricolo.

Ci chiediamo, infine come provocazione, se possa davvero esistere un equilibrio tra la preoccupazione circa il deficit culturale degli italiani e l’eliminazione del più rilevante sapere formalizzato in grado di colmare tale distacco.

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