AVATAR (2009) E LA STORIA DELLE ESPLORAZIONI GEOGRAFICHE (E DEL COLONIALISMO)

di Michele Castelnovi

 

Deus ex machina, Gaia, Bildungsroman, l’ecologia, la geopolitica nell’era Bush jr.: c’è un po’ di tutto nel recente capolavoro bestseller hollywoodiano Avatar. Ma c’è anche la storia delle esplorazioni geografiche e del colonialismo.

 

Lascio ad altri il parlare di Gaia (da Lovelock ed Asimov alle più recenti rielaborazioni del concetto di pianeta-vivente), di Madre Natura, per non dire dell’Iraq o del Vietnam. Mi sembra fuori di dubbio, però, che gli sceneggiatori abbiano tenuto conto di molte suggestioni provenienti dalla storia dell’espansione dell’Occidente in ambito coloniale. Propongo queste rapide riflessioni principalmente per suggerire una serie di possibili approfondimenti ed anche per dimostrare (la situazione nazionale ne evidenzia la necessità) quanto sia utile la conoscenza delle discipline storico-geografiche non solo come cosa in sé, ma anche, ad esempio, per comprendere un film di successo.

 

Il concetto che la conquista dello spazio non sia altro che la versione aggiornata della storia delle esplorazioni era già esplicito fin dalla metà degli anni Settanta (Surdich, 1975). Il confronto tra due civiltà che è rappresentato in Avatar, non a caso, coinvolge da un lato gli ultimi epigoni dell’Occidente e dall’altro i Na’vi, quasi come dire i Nativi (in latino, ma anche in inglese). Il paesaggio degli Occidentali è completamente antropizzato (questo lo si osserva in particolare nelle prime sequenze). Ogni metro quadrato è occupato da qualcosa di edificato o costruito: cemento, vetro, strade. La differenza era già enfatizzata in altri film, come Mission (Roland Joffé, 1986) e soprattutto Pocahontas, prodotto dalla Disney (Mike Gabriel, Eric Goldberg, 1995), dove, non a caso, i buoni nativi sfruttavano solo risorse rinnovabili (caccia, pesca, agricoltura), mentre i cattivi occidentali procedevano per distruzioni irreversibili (deforestazione e soprattutto scavo di miniere). La miniera estrattiva, dunque, si fa, in Avatar, come nella storia, emblema distintivo dell’avidità dei “cattivi”, come già aveva messo in evidenza Kevin Lynch (1960).

 

Così sintetizzava Tzvetan Todorov (1991, p. 312): «La società dei selvaggi, secondo Amerigo Vespucci, si contraddistingue per cinque caratteristiche: assenza di vestiti, assenza di proprietà privata, assenza di gerarchia e di subordinazione, assenza di tabù sessuali, assenza di religione; il tutto viene riassunto in questa formula: vivere secondo natura. Occorre aggiungere che questi selvaggi sono gratificati da qualità fisiche eccezionali: sono alti due metri e mezzo e vivono spesso fino a centocinquanta anni. Sappiamo che il ritratto dei ‘cannibali’ tracciato da Montaigne si ispira largamente a questa descrizione». Domandiamoci: Todorov si riferisce al Nuovo Mundo, o a Pandora? Alla fine (ed assai prevedibilmente) Sully sceglierà di essere accolto tra i Na’vi, completando il cliché del percorso filosofico secondo cui l’occidentale critico è attratto inesorabilmente verso il Buon Selvaggio, come è accaduto mille altre volte, da Cabeza de Vaca al Costner di Balla coi lupi (1990) (Sozzi, 2002).

 

Nelle prime scene del film, quando ancora il pubblico non ha visto i Na’vi, colonnello e burocrate ne parlano come se fossero non-umani, animali da cacciare: tema frequente anche in molti altri film, da Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979) a molte pellicole di fantascienza, ma che ha le sue radici nelle Decadi di Pietro Martire d’Anghiara (“in certaminibus … cum nudis incolis, canum opera plurimum utebantur”: 1493-1524), come aveva già sottolineato Gerbi (1975). Dal punto di vista della (filosofia) morale, la domanda principale è: ma è giusto massacrare i nativi? Nel Cinquecento, la questione era posta in termini teologici: se i nativi avessero l’anima (e sottolineo se), dovrebbe essere necessario convertirli, non sterminarli. Analogamente, si interrogavano giuristi e teologi, se il Cristo è stato annunciato dai sui apostoli nell’ecumene che corrisponde al solo Vecchio Mondo, quale sorte attende gli abitanti di questo Nuovo Mondo separato dal nostro? E l’analogia si estende – perché si tratta di un unico genere letterario – dai resoconti delle colonizzazioni dell’età delle grandi scoperte geografiche fino all’età delle esplorazioni spaziali: laddove l’eventuale constatazione dell’esistenza di forme di vita in altri pianeti (fil rouge di tanta produzione hollywoodiana) dovrebbe indurre a domandarsi se la salvezza debba considerarsi estesa anche ad altre razze senzienti di altri pianeti (per il dibattito cinquecentesco l’analisi migliore per l’approfondimento è ancora Gliozzi, 1977, anche se il riferimento logico più illustre si trova nel Des coches di Montaigne).

 

I conquistatori ordinano ai nativi di arrendersi: è un ultimatum, concettualmente poco distante dal Requerimiento che gli spagnoli intimavano prima degli assalti. In poche parole, convertitevi e sottomettetevi; se non vi convertite, vuol dire che siete peccatori pervicaci e ci offrite il pretesto morale, legale e teologico per massacrarvi (la bibliografia sul tema è amplissima, ma inizierei da Giletti Benso, 1989).

 

A proposito del film Avatar si è discusso molto di trama ovvia e personaggi stereotipati. I ruoli, però, sono ricavati direttamente dalle cronache dell’esplorazione e della colonizzazione, soprattutto (ma non solo) verso le Americhe. I ruoli cospicui tra i civilizzati sono: esploratore, militare, amministratore-burocrate e scienziato. L’esploratore deve rendere conto agli altri tre, ciascuno motivato da esigenze diverse. Adoperano anche la cartografia (anche se nel film questo si può vedere solo in una sequenza, quando Parker mostra a Sully dov’è l’albero sacro) per pianificare le proprie azioni: ancora una volta la geografia “sert, d’abord, à faire la guerre” (Lacoste, 1976), esattamente come si vedeva nell’uso strategico delle mappe ne Il Signore degli Anelli (ancora più evidente nella trilogia di Peter Jackson, 2002-2004). I nativi ripropongono la divisione dei poteri tribali che abbiamo visto in tanti film hollywoodiani sui pellerossa: c’è il capo guerriero, con il suo “delfino” smanioso di combattere, poi c’è lo sciamano (sacerdote e guaritore), la sacerdotessa, e infine l’attraente figlia del capo, secondo un cliché davvero scontato. Quest’ultima combatte come un guerriero, cavalca come un’amazzone ed è pure un ottimo arciere, come la caraibica incontrata da Michele da Cuneo nel 1494. Promessa sposa per ragion di Stato, come Pocahontas preferirà anche lei il suo John Smith, incarnato nell’esploratore occidentale. Incaricata di insegnare lingua e costumi all’esploratore, si comporta come Malinche/Marina con Hernán Cortés, mettendo a sua disposizione anche le leggende più antiche e permettendogli di aumentare il proprio prestigio avverando misteriose profezie (Morino, 1984; il riferimento va anche ai grandi muralesdel messicano Diego Rivera – 1886-1957). La biologa impersonata da Sigourney Weaver ha studiato la lingua dei nativi (come i gesuiti in America), ha fondato scuole per insegnare la lingua dei civilizzati ai bambini (come i francescani e gli agostiniani: non a caso si chiama Grace Augustin), e, come il domenicano Bartolomé de Las Casas, prima ha sostenuto la tesi che i nativi potessero essere coinvolti nei progetti economici (come schiavi?), poi si è eretta a loro difesa contro i soprusi e l’avidità dei conquistatori (il riferimento, obbligato, è a Todorov, 1984).

 

La scarsa attenzione verso l’equilibrio naturale sembra essere una caratteristica dell’approccio occidentale, tutto concentrato a massimizzare i profitti immediati. Tale approccio induce ad uno sfruttamento delle risorse davvero eccessivo, dettato dall’avidità (il personaggio di Parker) ed attuato per mezzo della violenza (il colonnello). Sono gli ingredienti che, secondo una ben conosciuta analisi (Diamond, 2005), possono condurre le civiltà al collasso ed alla successiva implosione.

 

Come al solito, i conquistatori sembrano prevalere finché le tribù native rimangono in disaccordo: scena già vista in innumerevoli film e in innumerevoli scenari storici, fra gli Aztechi, gli Irochesi, gli Abissini, gli Zulu… (Wright, 1993). Cosa si potrà mai fare con archi e frecce, contro jet ed elicotteri? Fin dalla più remota antichità la superiorità tecnologica dei “civilizzati” poteva però essere messa in scacco dalle tecniche di guerriglia attuate da arcieri seminudi: le legioni romane attaccate dagli Iceni della guerriera-sacerdotessa Boadicea (cui allude la Ginevra-arciere interpretata da Keira Knightley in King Arthur, di Antoine Fuqua, 2004) o da Calgano (il caledone descritto da Tacito, una sorta di Braveheart – Mel Gibson, 1995 – ante litteram), ma anche il primo forte costruito da Colombo nel 1492 e distrutto da Caonaboa, cacicco caraibico nudo e armato solo di un tizzone ardente. Archi e frecce, armi emblematiche per semplicità di fabbricazione, povertà di costi, riutilizzabilità dei proiettili (il contrario dei fucili: costosi, difficili da riparare, con cartucce da far arrivare dall’Europa), erano le armi vincenti degli Abissini e degli Zulu.

 

Non sto a dire – nella speranza che sia sviluppato da altri geografi – quanto Vietnam sia presente in Avatar, dal napalm alla cavalcata delle Valchirie di Apocalypse now; e non sto a chiedere se il Vietnam non sia, benché così recente, anch’esso un capitolo della lunga storia delle esplorazioni (e del colonialismo).

 

In conclusione. C’è chi dice che studiare geografia è inutile. Data l’influenza della letteratura di viaggio sulla trama del film Avatar, potremmo provare a proporre lo studio della storia delle esplorazioni geografiche come curriculum preliminare per la professione di sceneggiatore di kolossal. 

   
 

Riferimenti bibliografici

 

J. DIAMOND, Collassi. Come le società scelgono di morire o vivere, Torino, Einaudi, 2005.

A. GERBI, La natura delle Indie Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonzalo Ferdinado de Oviedo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975.

S. GILETTI BENSO, La conquista di un testo. Il “Requerimiento”, Roma, Bulzoni,1989

G. GLIOZZI, Adamo e il nuovo mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), Firenze, La Nuova Italia, 1977.

Y. LACOSTE, La géographie, ça sert, d’abord, à faire la guerre, Parigi, Maspero, 1976.

K. LYNCH, The Image of the City, Cambridge MA, MIT Press, 1960 (trad. it.: L’immagine della città, Padova, Marsilio, 1969).

A. MORINO, La donna marina, Palermo, Sellerio, 1984.

L. SOZZI, Immagini del selvaggio. Mito e realtà nel primitivismo europeo, Roma, 2002.

F. SURDICH, Contributo ad una bibliografia sulle imprese spaziali, in “Nuova rivista storica”, LIX, 1975, pp. 648-674 (dello stesso autore si vedano anche altri contributi sul periodico da lui fondato a Genova, “Miscellanea di Storia delle Esplorazioni”).

T. TODOROV, La conquista dell’America. Il problema dell’ “altro”, Torino, Einaudi, 1984.

T. TODOROV, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi, 1991, p. 312.

R. WRIGHT, Continenti rubati. Le Americhe viste dagli indiani dalla “scoperta” ai nostri giorni, Milano, Corbaccio, 1993.

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