DIRITTO AL TANGO

di Luogoespazio (R.B.)

28 giugno 2010. Parco Scientifico e Tecnologico di Casablanca. Arrivo continuo di automobili nel parcheggio posteriore dell’edificio. Niente di strano se fossero le 8 del mattino. Invece sono le 8 della sera. Cosa succede? Al piano terra dell’edificio, in quello che dall’esterno può sembrare uno scantinato si sta preparando l’incontro con il celebre poeta Abdellatif Laabi. All’ingresso vengo accolta da un organizzatore che mi fa visitare il posto. Vengo condotta tra moderni studi di registrazione, sale prova, piccole sale concerto e un grande spazio collettivo e polifunzionale dedicato principalmente alla segreteria, alla presentazione delle attività e alle riunioni. Mi trovo all’interno della sede di L’Boulevard (http://www.boulevard.ma/), un collettivo di artist* (in prevalenza musicist* ma anche attori/attrici, video maker, creativ*) che da qualche tempo animano la scena culturale di Casablanca. Alcuni parlano di ‘la Nayda’, movida marocchina, ma sembra più un modo di identificare un prodotto commerciale piuttosto che un’espressione adatta a descrivere il fermento e il risveglio culturale di cui è protagonista Casablanca. Negli ultimi anni si è assistito alla nascita di “un nuovo genere di cultura, puramente urbano che sembra una reazione alla situazione mondiale e alle problematiche identitarie: la possiamo chiamare cultura underground” (Aicha El Beloui, Abattoires de Casablanca ou l’aventure culturelle d’une ville, Tesi Ecole Architecture de Rabat, 2010, p.24). Si tratta, infatti, non semplicemente della reazione agli anni di repressione che hanno caratterizzato il regno di Hassan II ma qualcosa di ben più complesso. È l’esigenza di un’intera generazione di giovani, che vivono principalmente nel contesto urbano, di esprimersi e di creare in maniera autonoma, indipendente dalla cultura istituzionalizzata, attraverso la ricerca di forme ibride di espressione che riflettono l’abbandono dell’idea di un’identità unica per lasciare il posto a identità multiple e in continua ricomposizione.

Sulla base della convinzione che la cultura sia un diritto umano (Aadil Essaadani) e non qualche cosa ‘in più’, una preoccupazione in coda alle altre in un paese definito secondo i parametri economici globali ‘in via di sviluppo’, questi artisti o, come loro stess* si definiscono, produttori di cultura, rivendicano degli spazi di aggregazione, di produzione artistica ma soprattutto di sperimentazione. Nasce così a Casablanca una costellazione di spazi sparsi in diversi quartieri della città, dai più centrali ai più periferici, che non semplicemente ospitano quest* artist* ma che da ess* vengono trasformati, sistemati e vissuti: le fabbriche culturali di Casablanca.

Potremmo inserire questa tendenza nel più generale fenomeno globale di riqualificazione degli spazi urbani in disuso a causa dei cambiamenti di funzione e di crisi della produzione (si veda, tra gli altri, Dansero, Emanuel, Governa, Patrimoni industriali, 2003, Franco Angeli). Non sarebbe sbagliato ma di sicuro sarebbe riduttivo. Perché la loro occupazione è una conquista, il frutto di una continua negoziazione con le autorità locali, il prodotto della battaglia per il diritto alla cultura e il riconoscimento dello statuto di artista e intellettuale come attore/attrice fondamentale del cambiamento in atto.

Non solo. Alcuni di questi spazi di aggregazione acquista un valore simbolico ancora più forte quando viene costituito in quartieri particolari. È il caso degli Abattoirs, il macello pubblico costruito nel 1922 e abbandonato nel 2002, sito ad Hay Mohammedi. Si tratta di un quartiere tristemente noto perché lì sorgeva una delle case in cui venivano torturati gli oppositori politici prima che fossero trasferiti nelle prigioni durante gli anni di piombo del Marocco (cominciati negli anni ’70 e terminati con la morte di Hassan II nel 1999). Nel gennaio del 2009, l’Associazione Casamemoire (www.casamemoire.org), impegnata nella salvaguardia del patrimonio XX secolo di Casablanca, firma una convenzione annuale con la pubblica amministrazione per la gestione di questo luogo abbandonato. Nasce così la prima vera grande fabbrica culturale, Les Abattoirs de Casablanca http://www.facebook.com/group.php?gid=48952445657, che darà vita ad un evento dal forte valore simbolico: les Transculturelles des Abattoirs (El Beloui 2010). Per un anno intero questa generazione di produttori culturali contemporanei vive il sogno di condividere, sperimentare e produrre nuove forme d’arte che riflettano nuovi visioni del mondo e rappresentino il riconoscimento di nuove identità in transizione. Per un anno. Perché quello che è stato vissuto come l’inizio di un movimento impegnato nel cambiamento rischia di diventare oggi solo un risveglio momentaneo. Il Comune, infatti, non ha rinnovato la convenzione. Ma tutte le associazioni che animano gli Abattoirs e che si stanno costituendo in collettivo non demordono e continuano a lottare per mantenere questo spazio di creazione che si sta configurando come luogo carico di senso e simbolo del cambiamento culturale.

La configurazione di un luogo è spesso il frutto di un contesto. Ed è proprio per agire su questo contesto che L’Boulevard ha organizzato l’incontro con Abdellatif Laabi (www.laabi.net), scrittore, saggista, poeta e intellettuale, uno dei simboli dell’opposizione al regime durante gli anni di piombo, oggi autore dell’appello Pacte National pour la culture (per sostenerlo scrivere a laabimanifesto@hotmail), che ha raccolto centinaia di firme di intellettuali marocchin* e stranier* accomunat* dal desiderio di poter continuare a “sognare che il Marocco sia un paese all’altezza delle nostre aspettative”. Non si tratta di una rivendicazione nazionale (quando gli ho chiesto se potevano firmare gli/le stranier* mi ha risposto “Per me è un principio fondamentale di questa azione”) perché la cultura è un problema comune, strettamente legato alla formazione delle identità e ad un progetto sociale. “Non bisogna essere prigionieri della nostra cultura […], ci obbligano a esserne ostaggio”. La produzione culturale è transazionale perché frutto di continui incontri, ricomposizioni e scomposizioni di persone che, come Laabi, rivendicano il diritto di “commuoversi davanti al tango piuttosto che con la musica andalusa”.

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