LA GEOGRAFIA COME “CENERENTOLA” DELLE DISCIPINE? STORIA, FUNZIONE E MISTIFICAZIONE DI UNA METAFORA

di Michele Castelnovi

Capita con imbarazzante frequenza di sentire qualificare la Geografia come “la Cenerentola delle discipline”: l’occasione più recente – ma di certo non l’ultima – nel sito del National Geographic, all’interno della presentazione di un test curato proprio da Luogoespazio (link) al quale la prestigiosa rivista ha deciso di aggiungere questa espressione. Da dove nasce codesta idea, cosa significa e perché dovremmo contrastarla?

 

Sembra che il primo ad adoperare codesta formula “geografia come Cenerentola della storia, ancilla historiarum”, sia stato il francese Raveneau nel 1891 (Annales de Géographie, I, p. 332). Forse sarebbe stato dimenticato, se non fosse stato citato in una delle più famose e consultate opere di uno storico che non disdegnava di occuparsi di geografia e di cultura nel senso più ampio: Lucien Febvre, La terre et l’évolution humaine, 1922, p. 62 (la traduzione in italiano, con il consueto ritardo, è del 1987).

 

La metafora della “geografia come occhio della storia” è un classico nella retorica occidentale, forse fin dai tempi di Erodoto: anche se non è privo di interesse il fatto che il massimo cantore delle vicende storiche per eccellenza, la guerra ed il viaggio, risulti essere cieco (Omero). I riferimenti retorici all’abbinamento tra storia e geografia culminano in età barocca, ad esempio negli scritti di Daniello Bartoli oppure nei quadri di Vermeer.

 

Tornando a Cenerentola, una delle prime ricorrenze in Italia dovrebbe essere stata il XV Congresso Geografico tenutosi a Genova nel 1927: quando il prof. Centolani, nell’ambito di un intervento intitolato Le proiezioni luminose e la geografia, lamentando la scarsa considerazione attribuita alla geografia dai programmi ministeriali di allora (nihil sub sole novum) e stigmatizzando l’eccessivo nozionismo (sic!) che la rendeva noiosa, invocando nientemeno che “lo svecchiamento dei programmi” volle dichiarare che “Cenerentola o quasi tra le discipline scolastiche fu finora la geografia. Renderla piacevole sarebbe l’ideale; renderla tollerabile è dovere […] nessun nesso generico o analogico: nessun cemento coesivo tra quelle fitte pagine, così ostiche e repulsive; nessun interesse vivificava quell’immenso strato di materia pallida e inerte” (citato da Quaini M. in Aa.Vv., Tra storia e geografia. Ricerca e didattica a Genova tra XIX e XX secolo, Genova, Brigati, 2004). E ci sorprende che quelle lamentele fossero elevate proprio nel momento in cui la geografia godeva di molto favore presso i politici, per la descrizione delle colonie (prima e dopo l’Impero), per la conoscenza delle mete dell’emigrazione (da Buenos Aires a New York), per il successo del Touring Club, per l’attenzione accordatale non solo dalle istituzioni pubbliche (in primis nei ministeri di Istruzione e Difesa, con IGM e IIM) ma anche dagli editori privati come Mursia, Hoepli, Treves ecc. (che ovviamente rispondevano a una domanda sentita dal pubblico e non da scelte aprioristiche come avrebbero potuto essere quelle politiche) e dalle grandi opere culturali come la Treccani.

 

Se esistono i Lares (spiriti protettori) di un Corso di Laurea (l’idea è di Italo Calvino), quelli che abitano a Genova si saranno ormai annoiati di codesta formula, adoperata tale e quale ancora dalla professoressa Maria Clotilde Giuliani nel 1981: “negli ultimi vent’anni il corso di laurea in Geografia è stato la cenerentola della facoltà di lettere genovese: pur essendo all’origine di carattere specialistico e quindi di limitato sviluppo [? Sic!], non è mai stato adeguatamente potenziato. I docenti di geografia per lustri hanno disatteso il loro compito principale: i programmi risultavano gli stessi della Geografia del corso di Lettere [cioè banale nozionismo] e rimanevano uguali per decenni, cosicché non costituiva nessun approfondimento dare due esami o più, essendo il programma pressoché lo stesso.”(Giuliani M.C. in AGEI, Lo stato della ricerca geografica in Italia, 1960-1980).

 

Ma in definitiva, che cosa significa questa favola? Non dico il significato allegorico-pedagogico (Cenerentola come l’adolescente che mal sopporta i lavori domestici cui la obbligano la madre e le sorelle, simbolo della crescita e dell’accesso all’età adulta con onori, ma anche oneri), e nemmeno dei possibili significati storico-etnografici, se è vero che taluni, come Ton Dekker, vi hanno scorto un riferimento alla pratica del footbinding ossia della mutilazione dei piedi delle bambine da parte delle madri, con finalità estetiche ma anche sociali, utilizzata in Cina fino a pochi decenni fa (in Aa.Vv., Dizionario delle fiabe e delle favole. Origini, sviluppo, variazioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 92). I cultori del genere potrebbero domandarsi se, per assomigliare a Cenerentola, dobbiamo anche noi, come le sorellastre, amputarci dita dei piedi e talloni per cercare di stare dentro le scarpe troppo strette che ci vengono imposte dal Principe – oh, che belle favole per i bambini, signori Grimm!

 

No: la favola di Cenerentola nella sua versione più diffusa è l’ultimo esempio di tragedia greca risolta solo per l’intervento improvviso del deus ex machina. La protagonista della favola, passiva e rassegnata, accetta ogni genere di umiliazione, nella convinzione che sia compito di altri soggetti: il principe azzurro, il ciambellano, la fatina, al limite i topi e i passeri. In una versione “modernizzata” ambientata nell’Africa Orientale Italiana, viene salvata nientemeno che da Cappuccetto Rosso (v. Torta E. in Surdich F., Miscellanea di storia delle esplorazioni XXXII, 2007, pp. 101-134) che giunge inopinatamente a procurarle la sua salvezza. Noi sappiamo invece che nella realtà la salvezza ciascuno deve procurarsela da sé.

 

Fuor di metafora: o i “geografi” (professori, ricercatori, precari, non-strutturati, appassionati: e i Cattaneo e i Gobetti che non erano geografi, ma si occupavano di problemi geografici) si danno da fare per mostrare e dimostrare ai “non-geografi” che “oltre il nozionismo c’è di più” (parafrasando una nota canzone di Jo Squillo, 1991), oppure la disciplina sarà sempre più fortemente relegata a un ruolo subalterno che probabilmente agevola la prepotenza delle altre discipline (benevole sorelle o malvagie sorellastre), ma in definitiva rende un pessimo servizio civico ad ogni cittadino consumatore ed elettore, minando le basi di una qualsiasi scelta consapevole (sull’Afghanistan, sull’Iraq, sul Sudafrica, sulla Grecia, sulla Turchia, sulla Cina: e sono decisioni che cambiano la nostra vita quotidiana, i prezzi al consumo, il livello fiscale) e in poche parole permettendo alla demagogia di prevalere sulla democrazia.

 

 

P.S.: se, per alludere alla Geografia, si deve proprio ricorrere a un personaggio dei cartoni animati, che sia almeno Pocahontas (1995: la quale apprende la lingua dell’Altro, che pagaia da sola sul fiume, che naviga fino a Londra, che conosce montagne e animali, che osserva la bussola: ma soprattutto è artefice del proprio futuro) o Saetta McQueen (“Cars motori ruggenti”, 2006: il quale scopre che la nuova superstrada rettilinea e veloce ha tagliato fuori dai transiti e dagli scambi proprio Radiator Springs, metafora dei luoghi della lentezza soppiantati dai non-luoghi) o Belle (“La bella e la Bestia”, 1991; la quale legge avidamente e criticamente tantissimi libri di ogni genere interdisciplinare, non si accontenta del sapere comune del buon senso dei suoi ingenui compaesani, e soprattutto non si lascia fermare nemmeno davanti al divieto di accesso alla stanza che il tiranno le ha proibito); ma basta con Cenerentola, basta con la passività e il piangersi addosso finché non arriva il deus ex machina.

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