IL BRUTTO FA MALE. INQUINAMENTO VISIVO E PAESAGGIO

di Paolo Rognini

L’inquinamento visivo va inteso come qualsiasi rottura dell’integrazione tra spazio fisico e opere umane tout court. È l’alterazione di qualsiasi unità spaziale ad opera di agenti incongrui, sgradevoli per la vista e tali perfino da generare malessere fisico: il brutto fa male.

E’ possibile utilizzare il termine “esposizione”, così come viene adoperato in campo epidemiologico: l’esposizione a contaminanti visivi provoca assuefazione e tolleranza. Tolleranza al brutto, che assume sempre più connotazioni inconsapevoli da parte di chi lo subisce

, conducendo ad una sorta di sindrome di falso adattamento. Falso in quanto i nostri sistemi percettivi, ma soprattutto le reazioni psichiche, producono in ogni caso malessere che, tuttavia, non è rilevato.

Dovremmo riflettere, per esempio, sulla perdita di orizzonte che generalmente si accompagna alla vita urbana. Chiudendo i suoi abitanti nell’intreccio delle strade e nel perimetro di grattacieli, palazzoni e muri, limitando la vista e celando l’orizzonte, la città sempre più  trasfigura i suoi abitanti, occludendo lo sguardo in un contesto sempre più asfittico. Davvero non ci sorprende che uno dei disturbi più diffusi negli attuali ambienti urbani sia l’attacco di panico. Vedere l’orizzonte riposa l’occhio e la mente, dà un senso di libertà. Si pensi poi alla mancanza di finestre negli edifici pubblici e nei grandi centri di distribuzione commerciale: una grave forma di deprivazione sensoriale che risulta correlata ad una notevole quantità di disturbi psicologici, primi fra tutti gli stati d’ansia.

Si pensi alla congruenza tra l’immagine che una persona ha di sé e quella del luogo in cui vive, connessa al bisogno di vivere in sintonia con l’ambiente, pena una maggiore esposizione a situazioni stressanti e all’insorgenza di numerose malattie.

Anche l’attaccamento affettivo ai luoghi – topofilia – è un elemento fondante della storia individuale e di riferimento essenziale per l’identità di ciascuno di noi. Essa si basa sul riconoscimento di precise strutture o di paesaggi. È forse per questo motivo che la distruzione di un luogo a noi caro, o la sua completa trasfigurazione in virtù di scelte urbanistiche slegate dal contesto ambientale, è disorientante e ci fa soffrire: viene vissuto come una ferita o come uno pseudolutto per qualcosa che pe

r il nostro vissuto soggettivo era lì, stabile, sicuro, immutabile.

Paesaggi industriali, tecnologici, ma anche paesaggi urbani, con il loro dedalo di strade, di edifici, di traffico e di cartellonisitica pubblicitaria ch

e si presentano sempre più frequentemente ai nostri occhi. Rappresentazione di un’immagine del mondo che si sta progressivamente e inesorabilmente trasformando, in maniera spesso indisciplinata.

Si può dire che il paesaggio divenga, oggi, il riflesso di una disorganizzazione dello spazio, di

 una maniera propria degli elementi che lo compongono di distribuirsi disordinatamente rivelandosi al territorio con il senso, o il non-senso, da cui tale disordine è scaturito. Un paesaggio, perciò, che può divenire ansiogeno o criminogeno, depressogeno o patogeno. Comunque, esso rimane in tutti i casi un elemento che condiziona e che è condizionato dalla qualità della vita, producendo ricchezza o povertà, benessere o malessere.

E’ innegabile che in Italia sia venuta a mancare una vera e propria cultura della tutela paesaggistica. Si è assistito al tentativo di disarticolare e svilire culturalmente persino la nozione di paesaggio allo scopo mirato di mostrare l’inutilità e l’inanità della pianificazione paesistica che cercava di porre rimedio, negli ultimi anni del secolo scorso, alla corsa catastrofica verso l’annientamento.

Con l’avvento della modernità, è evaporato il culto rinascimentale per l’intervento umano modellatore della natura, probabilmente perché inconciliabile con la trasformazione industriale del paese. Vi è stata grande ostentazione riguardo alle trasformazioni territoriali (aree industriali, periferie, viadotti, elettrodotti, antenne…) poiché si dovevano vedere in quanto simbolo dell’uscita da una cultura tradizionale agricola ad una tecnologica e moderna: quella, appunto, del progresso. Questi segni dello sviluppo andavano mostrati, anzi, urlati, come manifestazione di riscatto sociale ed economico, tanto che per almeno i trent’anni successivi alla fine dell’ultimo conflitto mondiale, paradossalmente, si “andava fieri” dello sfregio paesaggistico, in barba allo stereotipo che vedeva gli italiani portatori di eccezionale sensibilità artistica e culturale.

In quegli anni si consolidò, tra le altre cose, la cultura che doveva riempire gli spazi percepiti “vuoti” con costruzioni ad altissimo ingombro che, oltretutto, hanno la disgraziata caratteristica di essere pressoché indelebili. Pochi forse, si fermano a riflettere sul fatto che nel passato le strutture generalmente avevano una vita media piuttosto limitata. Solo alcuni architetti hanno compreso quanto i “loro” oggetti sarebbero rimasti in piedi. Uno di questi fu Frank Lloyd Wright che in una celebre frase ebbe a dire: «Un medico può seppellire i suoi errori, ma un architetto può solo piantare un rampicante». Questi intellettuali avevano capito che si andava verso una cultura umana specializzata nella produzione di oggetti a bassissima utilizzabilità ma ad altissima resistenza temporale. Ed è proprio questa irreversibilità che fa paura.

Le politiche territoriali, in questo quadro, hanno il potere di decidere dove, quanto e cosa costruire. Ma di fatto in pochissimi casi ci si preoccupa degli aspetti percettivi della pianificazione. Perfino la qualità degli interventi è quasi sempre sacrificata ad un sistema ben consolidato: maggior rendimento con la minima spesa. Accettiamo che il “governo” di questi interventi sul territorio sia di ordine quantitativo, non qualitativo: metri cubi al posto di forma, superficie, colore e dialogo con il contesto ambientale.

Viene dunque da chiedersi: che tipo di paesaggi lasceranno alle nuove generazioni i pianificatori e gli urbanisti del XXI secolo? La risposta è alquanto facile: paesaggi-arlecchino, magmatici, frantumati nelle loro fasce di demarcazione, sparpagliati e disordinati. Insomma, in una parola, paesaggi straordinariamente brutti.

Si dovrebbe rimettere in discussione la “dittatura” di un esasperato relativismo estetico e cominciare a rivendicare il nostro diritto al bello. A rischio non è solo una delle ricchezze e dei patrimoni più preziosi che abbiamo – il paesaggio – ma perfino la nostra salute.

 

 Le foto provengono dal photo set di Tony de Marco, “San Paolo no logo”, e mostrano gli effetti di una campagna contro l’inquinamento visivo condotta nella città brasiliana di San Paolo. La campagna “San Paolo Ciudade Limpia”, a partire dal 2007, ha portato alla rimozione di qualsiasi pubblicità e cartellonistica e perfino ad un radicale ridimensionamento delle insegne commerciali. Nel video che compare in basso è possibile vedere un confronto tra il prima e il dopo la campagna in alcune aree della città. L’iniziativa ha suscitato, oltre alle ire dei negozianti e delle imprese di pubblicità, anche interessanti dibattiti per i quali si rimanda ad un articolo del New York Times. Le polemiche sono riprese recentemente, in seguito alla decisione molto contestata di derogare al divieto e consentire la pubblicità politica in vista delle elezioni presidenziali brasiliane che si sono svolte il 3 ottobre 2010.

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