LA MIA SESSUALITA’ E’ UNA CREAZIONE GEOGRAFICA?

di R.B.

“Mia sexualidad es una creation artistica”. Con la proiezione in anteprima nazionale del documentario di Lucìa Egaña Roja alla Casa Internazionale delle Donne, si è aperto a Roma l’11 marzo il Female extreme Body Art Festival.

“CORPO è MIO – Post Porn Art, body art estrema e live art” è la seconda edizione del festival di body performance art femminile ideato e curato dalle artiste Kyrahm e Julius Kaiser. Il centro d’interesse è il corpo nella sua accezione più estrema e carnale, come soggetto vivo e cosciente di lotta. Dagli anni Settanta, sostiene la perfomer Savoca, “le arti cosiddette ‘canoniche’ subiscono un definitivo cambio di rotta approdando a una privilegiata, inquietante terra di conquista: il corpo. Nasce così l’arte estrema: la comparsa della carne e della sua ‘violazione’ è un evento epocale, ‘epifanico’, il territorio in cui esplodono tensioni e perversioni che hanno ‘strisciato’ silenziosamente nelle epoche passate. I miti del martirio rivivono nelle torture, nelle crocifissioni nelle pratiche del dolore e del sangue. Dalle performance del Living Theatre , la Post-Porn Art, le provocazioni di Urs Luthi, la scioccante ‘esperienza’ di Franko B” (clicca qui). Lo spettacolo non è adatto a tutti, avvisa la performer Diana Pornoterrorista, “è uno show per coraggiosi, per amanti perversi, per menti affamate”.

Ma se la sessualità può creare arte, essa può giocare anche un ruolo nella ‘creazione geografica’? Per meglio dire, può la sessualità creare spazio?

David Bell e Gill Valentine (1995, Mapping desire, Londra, Routledge) non hanno dubbi a riguardo. Se già dagli anni Ottanta la geografia aveva cominciato a studiare il rapporto tra sessualità e spazio, portando l’attenzione in particolare sugli spazi del commercio e sul ruolo delle comunità gay nel processo di gentrificazione delle città americane (Castells, M. e Murphy K, 1982, “Cultural identity and urban structure: the spatial organization of San Francisco’s gay community”, in N. Fainsten e S. Fainsten, cura, Urban Policy under Capitalism, Beverly Hills, Sage), è solo nel 1995, con l’uscita del loro libro Mapping desire, che la geografia della sessualità entra a far parte della geografia mainstreaming. Scostandosi dalla geografia di genere, fortemente connotata dalla studio della componente femminile della popolazione, la geografia della sessualità porta l’attenzione sui soggetti LGBTIQ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trans, Intersessuat*, Queer o Questioning) e sul loro rapporto con lo spazio, in particolare con lo spazio pubblico eteronormato (clicca qui). La confusione tra spazio pubblico e spazio neutro era già stata messa in luce dalla geografia di genere, che aveva svelato la natura gendered dello spazio urbano (McDowell, L. 1983. “Towards an understandig of the gender division of urban space”. Environment and Planning D: Society and Space 1:59-72). La geografia della sessualità però, ha portato alla luce le dinamiche di inclusione/esclusione spaziale partendo dall’analisi dei corpi non-normativi, quelli cioè non rientranti nelle categorie di normalità stabilite dalla società dell’eterosessualità compulsiva (Rich, A. 1985, “Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica”, Nuova DWF, n. 23/24). Comincia così il felice incontro tra la teoria queer  e le scienze geografiche, che ha permesso lo sviluppo nel corso degli anni di un filone di studi fecondo e proficuo (Duncan, N. cura, 1996, Body/Space. Destabilising Geographies of Gender and Sexuality. Londra: Routledge). I queer studies, che con la critica femminista hanno in comune il ricorso alla matrice psicoanalitica relazionale e poststrutturalista, hanno dato impulso alla comprensione del genere come paradosso e alla sua decostruzione, portando l’attenzione sul ruolo delle strutture sociali nella formazione del concetto di eteronormatività. La riflessione queer si propone di esercitare una funzione sovversiva dell’ordine prestabilito che opprime le voci e le identità altre e di giocare con i codici e con i simboli dell’eterosessualità (clicca qui).

Il corpo, già da tempo entrato nella riflessione geografica, acquista così un ruolo centrale, non solo come (s)oggetto di studio ma anche come strumento per la creazione di nuove spazialità. I corpi non-normativi, infatti, possiedono un potenziale di sovversione delle norme che regolano lo spazio pubblico, nel momento in cui vengono usati per sovvertire l’ordine dominante. Attraverso le performance è possibile creare delle ‘rotture’, interagendo (e a volte usando) con lo spazio in maniera nuova.

Il corpo e la sua sessualità escono dalla sfera del privato per entrare a pieno titolo nel pubblico e soprattutto nel politico. Le performer, infatti, usano lo spazio pubblico per “infrangere le barriere tra ciò che si vede e ciò che non si vede” (Diana Pornoterrorista), per rompere, attraverso delle performance artistiche collettive, l’eteronormatività intrinseca allo spazio pubblico e metterne in luce la natura fortemente normativa e violentemente normalizzante (si veda, a titolo d’esempio, la famosa performance collettiva realizzata da Post Op, Quimera Rosa, Mistress Liar e Dj Doroti sulle Ramblas a Barcellona nel maggio 2010: guarda il video).

Ma le performance, oltre a portare effetti sulla percezione e pratica della sessualità di chi passa (casualmente o meno) per la strada e a mettere in crisi il binomio sesso/genere, possono davvero giocare un ruolo nella trasformazione dei luoghi e nel senso a loro associato?

Questa domanda si è fatta largo nella mia testa nel momento in cui sono entrata in contatto con Diana Pornoterrorista e con Videoarmsidea, quando ho visto le performances di Maria Llopes e di tutte quelle/i performer che sono entrate a far parte della controcultura europea e che caratterizzano oggi il postporno. “Il movimento artistico e politico Post-Porno, creato da Annie Sprinkle negli anni ’90, nasce in risposta alla pornografia convenzionale e alla sua incompleta e distorta rappresentazione della sessualità femminile. […] vuole intervenire per sovvertire e dare voce all’immaginario di tutti quei soggetti esclusi, marginalizzati, umiliati dalla pornografia maschilista funzionale al mercato e alla riproduzione della divisione binaria dei generi” (clicca qui).

Marìa Llopis in un’intervista definisce il post porno “Un movimento politico e per quel che mi riguarda la conclusione visiva, per immagini, tramite performance, sotto forma di testo o qualsiasi altro formato, delle lotte femministe e queer degli ultimi anni e delle lotte politiche radicali sviluppatesi intorno al corpo, al genere, alla costruzione di una nuova concezione della sessualità. Si vuole costruire un linguaggio differente, a volte anche metaporno; è pornografia ma non come la intendiamo classicamente; può assumere varie forme: performance, atelier, blog, progetti artistici, video, cortometraggi o lungometraggi in pellicola ecc…” (clicca qui). Il postporno non solo ha sovvertito l’uso del corpo nella pornografia, ma gli ha conferito un valore politico estremo. In questa maniera esso può essere letto come una vera e propria concretizzazione della queer theory, molto spesso ‘accusata’ di essere ‘troppo teorica’ e di poter difficilmente trovare un riscontro nella pratica,

Una controcultura che si definisce anticapitalista, postfemminista e sovversiva non può, di conseguenza, non avere come uno dei palcoscenici ideali lo spazio pubblico. La sessualità esce in questo modo dalla sfera del privato per diventare parte integrante del pubblico. Grazie a performer che rompono con la dicotomia uomo/donna facendo irruzione nello spazio pubblico con corpi che non si prestano a etichette categorizzanti, l’eterosessualità smette di essere la tacita caratteristica ‘naturale’ dello spazio pubblico. “La sfacciataggine e la follia del capitalismo han determinato l’autorità trasformando i corpi. Corpi di donne, gay, lesbiche, trans, bisessuali, queer, malati, pazzi, diversamente abili, anoressici, grassi, troppo belli o troppo brutti, bambini, perversi, stranieri, sfigati, territori occupati e controllati da una continua manipolazione che agisce su tutti i livelli della percezione della realtà e dell’esistenza. La comunicazione diventa merce, le relazioni rapporti di diffidenza e vigilanza, il contatto scopo, la vita esperienza annullata. […] La sessualità stessa incarna i codici di questa politica della corporeità morta. A partire dal rifiuto di questa meccanica e mediando tra testa e viscere, rielaboriamo i nostri corpi e le nostre coscienze con un sentimento d’amore folle e con una spregiudicatezza carica di poesia” (Videoarmsidea).

La post porn art diventa, quindi, un modo per rivendicare il pieno accesso allo spazio pubblico, uno spazio pubblico inclusivo che smetta di esercitare quella silenziosa violenza sui soggetti fuori-norma a cui Diana reagisce con il porno terrorismo.  Anche attraverso l’arte ‘estrema’, quella meno conosciuta, quella che difficilmente trova espressione al di fuori di spazi di nicchia o dello spazio virtuale, è possibile dare un contributo al lento processo di creazione di una giustizia spaziale, di una città che appartenga anche a chi, come Diana pornoterrorista, alla richiesta insistente della società di definire il proprio genere e di determinare da questo la propria pratica dello spazio pubblico, preferisce rispondere affermando “Adoro fare switch”.

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