GEOGRAFIE DELLA CRISI: CHI PAGA I COSTI (E PERCHE’) DELLA RECESSIONE GLOBALE

di Luogoespazio (Filippo Celata)

 

La crisi economica di questi anni è meno “globale” di quanto appaia. Ha avuto origine sulla 6th Avenue a New York, con il fallimento della Lehman Brothers, e si è propagata sui mercati finanziari a partire dalle grandi metropoli globali. Ma, mentre le città e i mercati che hanno costituito l’epicentro della crisi hanno già ricominciato a crescere, altri territori stanno pagando caro i costi della recessione. Vediamo quali, e perché.

Gli effetti immediati si sono registrati nelle regioni (o interi Paesi, come l’Islanda) maggiormente finanziarizzati, sede degli istituti finanziari in crisi perché in possesso di titoli “tossici” e crediti inesigibili. “Troppo grandi per fallire”, come si dice in gergo, gli istituti finanziari sono stati quasi tutti salvati. Gli effetti della crisi si sono ben presto abbattuti sull’economia reale, e in particolare su due tipologie di aree geografiche. In primo luogo sulle regioni maggiormente esposte sul mercato dei mutui ad alto rischio, perché caratterizzate da bolle immobiliari: negli Stati Uniti California, Florida e Nevada; in Europa Irlanda e Spagna. In secondo luogo sulle regioni industriali, in particolare quelle specializzate nella produzione di beni durevoli (gli acquisti che possono essere rimandati).

A due anni dall’inizio della crisi notiamo, per esempio, che Londra, uno degli epicentri globali della finanza, è l’area del Regno Unito che ha sofferto di meno mentre l’impatto maggiore l’ha registrato la regione industriale delle Midland. Negli Stati Uniti i tassi di disoccupazione più elevati non si registrano certo a New York ma, oltre che nelle aree dove il mercato immobiliare è in crisi, nel Manifacturing Belt intorno a Detroit. In Europa i mutui tossici erano meno diffusi, anche se bolle immobiliari sono scoppiate in vari contesti. Attualmente l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sui Paesi che hanno problemi di gestione del debito pubblico, come Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia.

E in Italia? Le finanze pubbliche sembrano al sicuro. Il mercato dei mutui – il sistema del credito in generale – è meno esposto perché tradizionalmente prudente. I nostri politici si sono affrettati a dichiarare che, per questo motivo, l’Italia fosse al riparo. Qualcuno (il Presidente del Consiglio) ha perfino vantato la nostra “base manifatturiera” come un antidoto alla crisi. Preferisco pensare che tali previsioni fossero legittimi tentativi di tranquillizzare i mercati piuttosto che il frutto di un errore. Le conseguenze di una crisi sono, infatti, ben note: crollo degli investimenti e dell’occupazione, calo dei consumi.

Sono proprio le aree industriali dei Paesi occidentali a pagare i costi maggiori. Lo testimoniano le performance negative di molti Paesi dell’Est Europa: Paesi Baltici, Slovenia, Finlandia, Ungheria, Romania. Soffrono in particolare le economie occidentali precedentemente in forte crescita, che importano capitali dall’estero e quindi sono in crisi di liquidità, mentre se la cavano meglio i Paesi che prima crescevano di meno, come la Germania (clicca qui). In quasi tutti i paesi emergenti del Sud Globale il PIL ha già ricominciato a crescere a ritmi paragonabili a quelli precedenti. Gli stessi paesi arabi in rivolta non hanno problemi di crescita, ma squilibri nella distribuzione del reddito, amplificati dall’aumento del prezzo dei prodotti di base; squilibri che la crisi sta accentuando in tutte le aree del mondo (clicca qui).

In Italia, stando alle previsioni Eurostat, ci vorranno 4 anni per recuperare il reddito perduto nel 2009. Gli effetti sul mercato del lavoro saranno, per questo, ancora più duraturi. Stando ai dati Istat, la disoccupazione è inferiore alla media europea. Se ai disoccupati, tuttavia, si aggiunge il numero di lavoratori equivalenti in cassa integrazione (dati INPS), le persone temporaneamente o permanentemente disoccupate nel 2010 salgono al 10,75%, ponendo l’Italia in linea con paesi quali l’Islanda e il Portogallo.

Sono le aree manifatturiere a subire l’impatto più pesante. In Lombardia e Piemonte il PIL è diminuito, rispettivamente, del 6,9% e del 6,3% nel 2009; ha fatto peggio soltanto l’Abruzzo: gli effetti della crisi sono stati peggiori, quindi, di quelli di un terremoto devastante.

I maggiori incrementi di disoccupazione si registrano, di conseguenza, soprattutto al nord (Torino, Lecco, Ferrara, Varese, Biella, Brescia, Modena), ma anche nelle aree industriali del Mezzogiorno (Taranto e Sassari). A Torino quasi un lavoratore su dieci ha perso il lavoro; il ricorso alla Cassa Integrazione, tra il 2007 e il 2010, è aumentato di sei volte, crescendo in media in Italia del 350%. Nel meridione i tassi di disoccupazione erano già alti, i lavoratori in mobilità sono relativamente meno, gli effetti della crisi più ritardati. L’occupazione in Italia, inoltre, era già in calo precedentemente alla recessione. Se, quindi, l’impatto immediato è in linea con altri Paesi europei, le nostre capacità di crescita sono inferiori, soprattutto nelle aree meno dinamiche. Solo cinque Paesi europei cresceranno meno di noi nel 2011, e solo due nel 2012.

In questo quadro è emersa una nuova parola chiave: la “resilienza”. E’ usata sempre più spesso da esperti e istituzioni per intendere la capacità di un territorio di trovare un nuovo equilibrio all’indomani di uno shock. Ha progressivamente sostituito nel lessico dello sviluppo regionale la parola “sostenibilità”. Al pari di quest’ultima, tuttavia, nessuno sa precisamente cosa significhi: chi uscirà meglio o prima dalla crisi?

La resilienza indica reattività e adattabilità; si riferisce quindi alle capacità reattive e trasformative di un territorio: la possibilità di valorizzare le componenti più dinamiche della società, individuare nuove specializzazioni. In un paese come l’Italia che non investe nella ricerca, dove intere nuove generazioni sono disoccupate o sottoccupate, in assenza di una qualsiasi politica industriale (a parte quella di Marchionne) e con un mercato interno stagnante, non resta che puntare sulle esportazioni; ma non possiamo ricorrere, come abbiamo fatto in passato, a svalutazioni competitive dell’Euro. Le speranze sono rivolte alle capacità competitive autonome dei territori più dinamici e ai settori di punta del cosiddetto made in Italy (non certo la Fiat), soprattutto dove si compete attraverso la qualità dei prodotti (non certo abbassando il costo del lavoro). Il riferimento è, in primo luogo, alle aree dei distretti industriali che hanno subito pesantemente la crisi (in particolare Emilia Romagna, Veneto e Friuli), ma che in molti settori (meccanica, ma anche tessile-abbigliamento) si stanno lentamente riprendendo (clicca qui).

Se il maggiore impatto, quindi, si è registrato nelle regioni più dinamiche e più esposte alle fluttuazioni del mercato internazionale dei beni, come si vede nelle figure, alcune di queste sembrano reagire meglio di altre. Gli effetti più duraturi si avranno nei territori caratterizzati da problemi strutturali precedenti, a cominciare dal Mezzogiorno, nelle regioni con specializzazioni in settori deboli e nelle aree eccessivamente specializzate. Uno dei più importanti fattori della resilienza è, infatti, secondo molti, la diversità della base produttiva. Appaiono evidenti le difficoltà dei territori troppo dipendenti da una o poche grandi imprese in crisi, quali la Fiat, l’Alcoa (Portovesme), la Vinyls (Portotorres) e decine di altre (clicca qui). Problemi legati ad un’eccessiva specializzazione si registrano anche in molte aree distrettuali. Sembrano cavarsela meglio, a ulteriore conferma, le aree metropolitane, soprattutto al centro-nord – Firenze, Milano, ma anche all’estero – che hanno una base produttiva diversificata e orientata ai servizi. Le politiche restrittive di bilancio, invece, si rifletteranno negativamente sulle città e sulle aree maggiormente dipendenti dalla spesa pubblica. Anche per questo, secondo molti, le regioni più resilienti saranno quelle più autonome e meno dipendenti da dinamiche esogene o dalle politiche nazionali.

Sicuramente non è possibile attendersi molto da quest’ultime. La risposta ad una crisi di domanda è in genere il rilancio degli investimenti pubblici. E’ la strategia adottata dalla Cina, che ha avviato un programma di infrastrutturazione senza precedenti. Nei Paesi occidentali, a quanto pare, non è possibile. Il “new deal” proposto da Obama è già naufragato. In Europa non se ne parla proprio. L’unico imperativo è stabilizzare i mercati finanziari, a tutti i costi (e a spese dei contribuenti). L’idea di porre un freno a questi mercati sembra anch’essa naufragata. La finanziarizzazione dell’economia e della società prosegue anzi incessante, mentre aspettiamo impotenti lo scoppio di un’ulteriore bolla nel mercato dei titoli Internet.

In questo quadro, e i dati lo confermano, sono le regioni e i Paesi alla periferia dell’Occidente, già precedentemente “scavalcati” dalla globalizzazione, a subire i colpi più pesanti. Una recente analisi dell’Economist indica, inoltre, che la recessione sta accrescendo i differenziali di sviluppo tra regioni all’interno di quasi tutti i Paesi occidentali (clicca qui).

Che la crisi stia, invece, contribuendo a un riequilibrio dell’economia globale a favore delle economie emergenti? Sicuramente si percepisce, in Occidente, un progressivo impoverimento. Le figure confermano la forte crescita di molti Paesi del Sud, ma si tratta di dati parziali, e soprattutto aggregati. Ovunque la crisi sta accrescendo le disparità di reddito, in un quadro di aumento dei prezzi dei prodotti di base. In Occidente questo implica il calo dei consumi, la stagnazione e la scomparsa della classe media. Nel Sud Globale gli effetti sono molto più drastici ed esplosivi: a cominciare dai Paesi arabi, per finire chissà dove e come.

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