DAL “MUSEO DEL KGB” AL “PARCO SOVIETICO” IN LITUANIA: “DOVERE DELLA MEMORIA”, PRETESTO TURISTICO, SFRUTTAMENTO COMMERCIALE

di Isabelle Dumont

Alla fine del XX secolo, il fatto che gli paesi ex sovietici abbiano recuperato la loro indipendenza ha generato molte trasformazioni a livello politico, economico, sociale e culturale, sia dal punto di vista dei responsabili di governo sia dal punto di vista della popolazione. È parso in quel momento fondamentale, ma probabilmente lo è ancora oggi, richiamare la propria identità – e quindi, inevitabilmente, la distanza culturale dalla Russia –, il ricordo dell’opposizione al regime (prima russo e poi) sovietico e tutto ciò che è a queste vicende collegato. Rimane, tuttavia, ineludibile una domanda: quanto è possibile rinnegare, “cancellare”, una parte del proprio passato collettivo senza perdere, paradossalmente, una parte della propria identità di popolo? Parallelamente, nelle nuove priorità di questi paesi, spicca la necessità di rapporti economici con i territori “occidentali” e, soprattutto, con i paesi europei limitrofi. In questa prospettiva il turismo straniero è caldamente incoraggiato, anche a rischio di una strumentalizzazione/spettacolarizzazione di momenti delicati e sensibili del proprio passato collettivo. Perché accade, a volte, che una dimensione “simbolica” e una dimensione “materiale” si sovrappongano strettamente negli stessi luoghi, rendendo difficile ‘leggere’ – nell’argomentazione retorica concretizzata in un dato luogo – un discorso nitido e coerente. Mi pare di poter affermare che una simile condizione si registri in Lituania. Il 15 giugno 1940, 150.000 soldati dell’Armata Rossa entrarono nel Paese: la data è spesso ricordata come la fine dell’assai breve indipendenza della Lituania (dal 1918 al 1939 – S. Vaitekūnas, 2009), e, allo stesso tempo, come inizio del rattachement al territorio sovietico (durato poi fino al 1991). Le visite del museo detto del KGB a Vilnius e del parco Grūto a Druskininkai, all’estremità meridionale della Lituania, suggeriscono una riflessione sugli eventi che vi sono tristemente ricordati.

Ma come sono “costruiti” questi musei? E, soprattutto: quale “memoria” trasmettono ai visitatori? Emerge maggiormente l’aspetto storico oppure la componente “ludico-istruttiva”? Entriamo un po’ di più nel dettaglio. La sede del “Museo delle vittime del genocidio” (nome ufficiale: Genocido aukų muziejus) è in realtà l’ex quartier generale del KGB a Vilnius (dal 1940 al 1991). Nei paesi baltici, il museo sembra essere l’unico di questo genere: istituito proprio nel palazzo diventato simbolo di sofferenza e di oppressione della popolazione locale[1].

L’edificio ha tre piani. Lo scantinato è costituito da celle più o meno grandi. Celle d’isolamento, per gli ‘interrogatori’ e per le esecuzioni. I luoghi si presentano per lo più come quando il KGB se ne è andato ad agosto 1991[2]; il piano terra e il primo piano, invece, sono stati trasformati per le necessità esplicative e cronologiche della ‘parte mostra’ del museo. Un piano è dedicato all’inizio delle persecuzioni nel 1940-41, alla guerra partigiana e allo smantellamento della resistenza (1944-53). L’altro si concentra sulle condizioni di vita nelle prigioni sovietiche e nei campi di lavoro (1944-56), sulle deportazioni (1944-53), sulla resistenza popolare dal 1954 fino al 1991 e, parallelamente, sulle azioni del KGB durante lo stesso periodo e sulle sue tecniche di controllo (ascolti di conversazioni private e ufficiali, osservazioni e via discorrendo). Per questo museo, dunque, sembrerebbe prevalere la componente storica.

Ufficialmente aperto il 1° aprile 2001, il Grūto parkas è – diversamente dal museo appena descritto – frutto dell’iniziativa e dell’autofinanziamento di un industriale e si presenta come un parco d’attrazioni, la cui tematica è il periodo sovietico. Secondo gli organizzatori, “The aim of this exposition is to provide an opportunity for Lithuanian people, visitors coming to our country as well as future generations to see the naked Soviet ideology which suppressed and hurt the spirit of our nation for many decades” (presentazione ufficiale del parco). Circa 80 statue d’epoca che, tra gli altri, raffigurano Lenin, Stalin, Dzeržinskij[3], sono state smontate da diverse piazze del paese, restaurate dai danni registrati dopo la dichiarazione dell’indipendenza lituana (11 marzo 1990) e installate in modo da proporre delle promenades in mezzo a una vasta area boschiva (20 ettari). Uno di questi viali porta alla ricostruzione di una “casa della cultura” sovietica (allestimento d’epoca, riproduzione di libri, manifesti e altro) e ad un museo. Per i piccoli vengono proposti i giochi all’aperto dell’epoca sovietica. Ovviamente, secondo il modello del parco d’attrazioni, il personale, i souvenirs, i gadgets, la cucina sono legati a un’unica tematica: il periodo sovietico. Parallelamente a queste “evocazioni”, legate secondo i responsabili al “dovere della memoria”, certi dettagli rendono alquanto perplessi: organizzazione di concorsi internazionali di miss, installazione di uno zoo, pubblicità per la confezione e la vendita di funghi…

Questi due casi − a priori distanti nel loro modo di presentarsi – pongono, ciascuno con le proprie caratteristiche, il problema e il senso del ricordo: il primo seguendo un modello più tradizionale, così come deciso dai responsabili politici lituani; il secondo con un’impostazione più moderna e accettato – probabilmente – solo in quanto lo Stato non doveva sborsare niente[4]. Detto en passant, questo secondo progetto ha suscitato molti dibattiti anche perché sollevava un punto cruciale a proposito dei simboli sovietici: le statue dovevano essere conservate o distrutte? Ma si potrebbe anche discutere se sia opportuno che un privato abbia la possibilità di disporne. Anche il museo più “tradizionale” suscita dilemmi: è bene mantenere “musealizzato” il palazzo del KGB (questo ricorda le discussioni a proposito dello chalet alpino di Hitler)? Si tratta di fedeltà al “dovere della memoria”? Probabilmente la risposta può essere affermativa nei confronti delle giovani generazioni locali, ma anche – e forse soprattutto – nei confronti dei visitatori stranieri. L’attenzione rivolta a quest’ultima categoria (come dimostra in entrambi casi la quantità di materiale informativo tradotto) porta inevitabilmente a interrogarsi sul peso che hanno in realtà il fattore turistico e l’interesse economico in tutta questa operazione di “sensibilizzazione”. Ma la stessa risposta affermativa è così scontata per coloro che hanno vissuto quel periodo?

Indubbiamente non è una novità: a tanti luoghi sono connessi simili problemi “etici”, ma in questo caso si pone un vero problema deontologico. Sono passati pochi anni e, mentre il nome delle vittime è scolpito sui muri esterni del palazzo, dentro vi sono esposte le fotografie nominative dei membri del KGB. La messa in scena dei documenti e del materiale d’epoca e la loro spettacolarizzazione rischiano di “estetizzare” i termini del problema fin quasi ad “anestetizzare” lo sguardo e soprattutto la mente (e la propensione critica) dei visitatori.

Inoltre la moltiplicazione e la diffusione dei musei o dei “luoghi della memoria” su temi altamente dolorosi non sono fattori di banalizzazione di eventi (storici) drammatici? Si passa dall’uno all’altro senza farsi troppe domande, commentando magari “doveva essere terribile”, ma lasciando suonare il telefonino o giocare i bambini. Alcuni potrebbero pensare che forse sia meglio così, che si tratti di un fatto positivo che consente alla vita di andare avanti, lasciandosi alle spalle queste imbarazzanti tracce del passato più o meno lontano. Ma rimane comunque la questione: è giusto che il “dovere della memoria” diventi o possa diventare un pretesto per attirare i turisti? O peggio: è giusto che si operi o si possa operare una strumentalizzazione del ricordo delle vittime e degli eventi tragici a fini economici?

Al di là di queste domande che non hanno la pretesa di essere originali – e che naturalmente non riguardano soltanto l’esempio lituano, ma tanti altri spazi – sembra evidente che occorra evitare di essere solo “oggetto” o soggetto passivo di questo tipo di operazione. Ma come si può essere veramente agente o attore del significato da dare ai “luoghi di memoria” e ai territori coinvolti? Con il passare del tempo, questi “luoghi di memoria” si stratificano/si fondono nel territorio per – in ultima analisi – contribuire a (in)formarlo e farlo evolvere. In questo senso, è davvero il caso di scandalizzarsi quando si sente suonare un telefonino in un “luogo della memoria”, oppure si tratta di un semplice segnale del fatto che la storia è stata “incorporata” in un territorio che continua a vivere il suo presente? Potrebbe darsi, in realtà, che questo dilemma sia solo la forma moderna di tante azioni od omissioni – già compiute da generazioni precedenti – rispetto a vicende e periodi storici ormai completamente assorbiti nei territori che conosciamo e ri-conosciamo.

Saperne di più:
1) Bibliografia

S. Vaitekūnas, The population of Lithuania, Vilnius, Mokslo ir enciklopedijų leidybos institutas, 2009.

Publicazioni del Lietuvos gyventojų genocido ir rezistencijos tyrimo centras [Centro di ricerca sul Genocidio e sulla Resistenza in Lituania]:

– Karas po Karo, Ginkluotasis antisovietinis pasipriešinimas Lietuvoje 1944-1953 m. [La guerre après la guerre, La résistance armée antisoviétique en Lituanie en 1944-1953], Vilnius, UAB, 2009.

– The museum of Genocide victims, a guide to the exhibitions, Vilnius, s. e., 2006.

2) Sitografia
– http://www.genocid.lt
– http://www.grutoparkas.lt


[1] All’inizio del XX secolo questo edificio era il tribunale della provincia di Vilnius dell’Impero russo; in seguito è diventato anche la sede della Gestapo tedesca. Il museo è stato “creato” sin dal 14 ottobre 1992 in seguito a una decisione comune del Ministro della Cultura e dell’Educazione della Repubblica Lituana e del Presidente dell’Unione dei Prigionieri Politici e dei Deportati. Nel 1997, una volta riorganizzato, la sua gestione è passata al “Centro di Ricerca sul Genocidio e sulla Resistenza in Lituania”.

[2] Ci sono anche “cortili” esterni per i prigionieri: quattro o cinque “scatole” con muri di 3 metri d’altezza e coperte di filo spinato nelle quali i prigionieri, uno alla volta, potevano camminare in cerchio e in silenzio assoluto per 10-15 minuti al giorno. Passata l’epoca di Stalin, i prigionieri ebbero un’ora d’aria.

[3] Di origine polacco-lituana, è il fondatore nel 1917 della polizia segreta che, dopo diversi cambiamenti, diventerà il KGB, oltre che re-inventore del sistema dei gulag, poi trasformati in campi di lavoro forzato.

[4] “Hesonos klubas public agency located in Grūtas near Druskininkai was the winner of the tender called by the Ministry of Culture in 1998 for the establishment of an exposition of dismantled monumental sculptures from the Soviet period. A strong argument for choosing this undertaking was that its manager, Viliumas Malinauskas, was planning to establish the exposition using private funds earned from his family’s mushroom and berry business without asking for financial support from the state. The project submitted for tender also stressed the importance of the new tourist site for the development of this region in Southern Lithuania” (dallapresentazione ufficiale del parco).

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