GLI ECOPROFUGHI: MIGRANTI INVISIBILI

di Michela Teobaldi

Anche quest’anno Firenze ha ospitato dal 20 al 22 maggio la manifestazione sulle buone pratiche ambientali denominata “Terra Futura”. Tra i tanti spunti di riflessione emersi nei vari dibattiti che hanno avuto luogo nelle giornate dell’evento, uno è sembrato particolarmente impellente: Legambiente ha lanciato l’allarme ecoprofughi sostenendo che ammontino a 40 milioni le persone che nel 2010 sono state costrette a emigrare a causa di fattori di degrado ambientale e/o disastri naturali.

Legambiente, che presentava in quella sede il dossier “Profughi ambientali: cambiamento climatico e migrazioni forzate”, ha cercato altresì di puntare l’attenzione sui paesi del sud del mondo, che pagano il prezzo più alto quando avviene un disastro ambientale. Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), ha calcolato che dei 262 milioni di persone colpite da eventi naturali estremi tra il 2000 e il 2004, il 98% viveva in un Paese in via di sviluppo. Cruciale è altresì considerata la condizione delle donne. Risulta infatti che il genere femminile sia più soggetto agli impatti degli eventi naturali estremi, in un rapporto di 3 a 1 rispetto al genere maschile, a causa della posizione di svantaggio sociale che la donna riveste nelle aree colpite (si veda, sempre su Luogoespazio, LO TSUNAMI, IL TERRITORIO, LE DIFFERENZE DI GENERE).

La mappa in alto a sinistra (tratta da www.emdat.be) rappresenta il numero totale di deceduti e di persone colpite da disastri naturali per 100.000 abitanti nel periodo 1974-2003, e conferma quanto detto: i paesi asiatici, per di più densamente popolati (Cina e subcontinente indiano), sono quelli in cui i disastri naturali colpiscono in maniera più incisiva la popolazione. Una situazione simile si presenta anche nell’Africa subsahariana, nonché in una parte del centro America e in (quasi) tutto il sud America.

La questione dell’ecoprofugo è emersa nel dibattito internazionale fin dagli anni Settanta e si fonda sulla relazione tra catastrofe o degrado ambientale e flussi migratori. In particolare, nel 1972, al Summit di Stoccolma, fu redatto un dossier dal titolo “Environmental Refugees” che offriva una definizione operativa di questa particolare tipologia di migranti: “persone o gruppi di persone che per ragioni di improvviso o progressivo cambiamento dell’ambiente, che influenzano sfavorevolmente le loro vite o le loro condizioni di vita, sono obbligate a dover lasciare le loro case abituali oppure scelgono di farlo, sia temporaneamente sia permanentemente, e che si trasferiscono o all’interno del territorio nazionale o all’estero” (Brown, 2008).

Nonostante questi dibattiti, tuttavia, non esiste una definizione condivisa del fenomeno: in questa sede viene usato “ecoprofugo” come termine di riferimento, anche se in realtà si utilizza anche “rifugiati ambientali” per riferirsi allo stesso fenomeno. E soprattutto non esiste un riconoscimento giuridico del loro status. Gli ecoprofughi non sono considerati né profughi, quindi non possono beneficiare delle agevolazioni loro concesse dalla legislazione in merito, né rifugiati, poiché non rientrano nei criteri stabiliti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 per quanto riguarda i rifugiati. Il mancato riconoscimento giuridico rende questa categoria di migranti particolarmente vulnerabile e non tutelata e, inoltre, non consente di tracciarne un profilo e di quantificarne i flussi.

In analogia alle migrazioni generalmente considerate, anche gli spostamenti degli ecoprofughi possono essere suddivisi in base al motivo, alla scala e alla durata del movimento.
Relativamente alle motivazioni, gli ecoprofughi possono essere distinti in due categorie: coloro che emigrano a causa di un progressivo e graduale degrado dell’ambiente in cui vivono e coloro che emigrano a seguito di eventi naturali estremi, cioè ad un cambiamento repentino dell’habitat. Ciò che principalmente differenzia queste categorie è la percezione della “volontarietà” del loro spostamento. Chi emigra a causa del degrado ambientale, vede venire meno le proprie condizioni di vita ottimali e pertanto percepisce lo spostamento come una opportunità verso un ambiente di vita più favorevole; mentre per coloro che hanno subìto eventi naturali estremi vengono a mancare servizi di base necessari per la sopravvivenza e la situazione obbliga ad emigrare. E’ interessante notare che a spostarsi in seguito al peggioramento delle condizioni ambientali sono soltanto coloro che ne sono in grado: nei Paesi in via di sviluppo, infatti, si stima che la maggior parte della popolazione (circa l’80%) non possa permettersi di fuggire.
Per quanto riguarda la scala, le stime dimostrano che lo spostamento degli ecoprofughi avviene generalmente all’interno del Paese. Invece per quanto concerne la durata, quando si tratta di eventi naturali estremi, la migrazione può assumere carattere permanente in quanto i tempi della ricostruzione possono essere molto lunghi.

La quantificazione del fenomeno risulta difficoltosa e approssimativa soprattutto a causa delle complessità nella definizione e della scarsa volontà della comunità internazionale, ma anche degli enti nazionali e locali. Il World Disaster Report pubblicato dalla federazione internazionale della Croce Rossa stima l’entità dei flussi di ecoprofughi intorno ai 25 milioni. Sono state anche elaborate delle previsioni da Myers, poi confermate dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che stimano un flusso di ecoprofughi in continuo aumento che potrebbe interessare, nel 2050, 200/250 milioni di persone, con una media di 6 milioni di persone all’anno. Il repentino aumento del numero di ecoprofughi ha diverse ragioni tra le quali, evidentemente, il processo di cambiamento climatico in atto, che potrebbe avere in futuro impatti drammatici e difficilmente prevedibili.

Per concludere, è necessario che sia i comuni cittadini che le istituzionali nazionali e internazionali riflettano sull’allarme lanciato da Legambiente.
Ciò che emerge è l’impellenza di una definizione che sia chiara e semplice, che consente di quantificare il fenomeno e che ponga le basi per una tutela specifica e mirata.
È stato proposto da più parti di ampliare la definizione di rifugiati fornita dalle Nazioni Unite. La proposta è stata, tuttavia, respinta dalle istituzioni competenti in quanto si è ritenuto che tale azione indebolirebbe la posizione dei rifugiati tradizionali, creerebbe confusione nei processi istituzionali (che sono ormai consolidati) con il risultato di oberare tali istituzioni.
In realtà da questo dibattito affiora l’incapacità delle istituzioni preposte di percepire i cambiamenti, di riconoscere il problema, comprenderlo e agire per risolverlo. Inoltre la questione assume un valore altamente politico, i governi devono cioè assumersi le responsabilità in situazioni di collasso ambientale ed è palese che questo comporterebbe un notevole sforzo economico e organizzativo.
In sostanza le istituzioni devono agire per lo scopo per cui sono state create, per la difesa dei diritti dei più deboli, cercando di uscire dalle logiche strettamente politiche e dalla considerazione degli ecoprofughi come, secondo il pensiero di Myers, “aberrazione del normale ordine delle cose” .

Bibliografia di riferimento

BROWN L., MCGRATH, P., STOKES, B., Twenty two dimensions of the population problem, Worldwatch Paper 5, Washington DC: Worldwatch Institute, 1976.

BROWN O., Migration and climate change, IOM Migration research series paper n.31, International Organization for Migration, Geneva, 2008.

CAPINERI C., RONDINONE A., TEOBALDI M., “Le geografie del giorno dopo”, Atti del convegno “Ambiente, rischio sismico e prevenzione nella storia italiana Siena 2 dicembre 2010”, 2011 (in corso di pubblicazione).

EL-HINNAWI E., Environmental refugees, United Nations Environmental Programme, Nairobi, 1985.
INTERNATIONAL FEDERATION OF RED CROSS AND RED CRESCENT SOCIETIES, World Disasters Report 2001, International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies, Accessed August 4, 2008.

JACOBSON J. L., Environmental refugees: a Yardstick of Habitability, Worldwatch Paper 86, Washington D. C., Worldwatch Institute, 1988.

KATES E.W., COLTEN C.E., LASKA S., Reconstruction of New Orleans after Hurricane Katrina: A research perspective, Cambridge, Harvard University, 2006.

LEGAMBIENTE, Dossier Profughi ambientali. Cambiamenti climatici e migrazioni, Roma, Legambiente, 2009.

MYERS N., KENT J., Environmental exodus, an emergent crisis in the global arena, Washington D. C., Climate Institute, 1995.

TICKELL C., Environmental refugees: the human impact of global climate change, Swindon, National Environment research council, 1990.

Sitografia di riferimento:
www.ehs.unu.edu
www.emdat.be
www.environment.about.com
www.geopoliticalnotes.wordpress.com
www.internal-displacement.org
www.protezionecivile.it
www.unhcr.it 

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