LA SARDEGNA, E TUTTI NOI

(*) Angelo Turco e la sua équipe stanno svolgendo in due Comuni dell’Appennino Sannita  un’Esperienza Partecipativa Pilota volta a costruire dal basso il Piano Urbanistico Comunale (PUC Condiviso; QUI un esempio) la cui redazione deve essere completata entro la primavera del prossimo anno.  L’équipe anima tra l’altro un Blog, da cui traiamo questo Post, d’intesa con l’Autore. La pubblicazione di questo post intende anche ri-avviare l’esperienza di Luogoespazio, dopo una lunga pausa di riflessione.

La Sardegna, e tutti noi

Angelo Turco

Abbiamo vissuto con la Sardegna tutta i giorni del lutto. Giorni lontani dalle vacanze, direbbero i fulminanti spiriti insulari come M. Fois o M. Murgia. Giorni d’autunno: la stagione delle piogge, una stagione tragica ormai per il nostro Paese, portatrice di devastazioni e di morte, deprivata del senso poetico che la nostra cultura, attraverso Ungaretti e D’Annunzio, aveva saputo conferirle.  Viviamo, sardi con i sardi, la sofferenza di questi giorni, lo sgomento di queste ore.Viviamo come italiani, vittime storiche di disastri naturali, un sentimento profondo di solidarietà operante.  E sentiamo noi di “PUC Condiviso”, sardi con i sardi, sanniti, il bisogno dolente di riflettere. Disastri naturali, intanto: che vuol dire? Ricordiamo, per restare in compagnia dei poeti, “La ginestra” di Leopardi. I versi con i quali, in meditazione proprio sul nostro Vesuvio, il recanatese sferzava quanti, per “l’umana gente”, andavano vagheggiando di “magnifiche sorti e progressive”: dimenticando che sarebbe bastata una piccola sgroppata del vulcano per distruggere territorialità secolari ed azzerare ogni speranza di progresso.  Pessimismo leopardiano? Beh, non proprio. Dopotutto, il poeta invita “l’umana gente“ a non montarsi la testa, a non esaltarsi per le sue conquiste politiche o tecnologiche, ad essere riflessiva, a cercar di capire le cose che fa nel momento in cui le fa: non dopo, quando ormai le ha fatte e, magari, non può più tornare indietro per rimediarvi se le ha fatte in modo sbagliato.  Sappiamo da moltissimo tempo, e certamente in Italia dal 1973, anno di pubblicazione presso Einaudi del piccolo e celebre libro di M. Roubault, che le “catastrofi naturali sono prevedibili”.  Non nel senso che sappiamo “esattamente” dove e quando capiterà un terremoto, una frana, un’alluvione. Ma nel senso che possiamo sapere, e persino calcolare, l’impatto di un evento naturale (che in sé non è mai disastroso!) sul territorio: in termini di distruzioni materiali, di danni economici, di vite umane offese o addirittura spente.  Disastro naturale: di che parliamo dunque? Ecco, proprio: parliamo dell’impatto di un dato di natura, cioè di un accadimento indipendente dalla volontà e dall’azione umana, su una costruzione antropica raffinata e complessa che si chiama “territorio”.  Il quale non è altro che uno spazio fisico modificato dall’uomo appunto, modellato secondo i bisogni e le priorità dei gruppi sociali grazie a un complesso apparato di tecniche, istituzioni, simboli.  In questo senso il vescovo di Olbia ha chiesto “di non lasciare inascoltato il monito che giunge da questa sciagura”; ha potuto dire che in “quello che è successo, non è estranea la mano dell’uomo”.  E ciò, senza sottovalutare la circostanza eccezionale (in poche ore è caduta la pioggia di molti mesi) e senza escludere l’ormai immancabile “cambiamento climatico”, che per essere un fenomeno probabilmente reale, richia di diventare il capro espiatorio di tutto affinché ciascuno possa essere sollevato dalle proprie eventuali responsabilità: tecniche, politiche, economiche, giuridiche, morali.  La voce del vescovo di Olbia non entra nel merito delle polemiche, ma dice che quel “disastro naturale” sarà pur imputabile a “una bomba d’acqua”, magari dovuta a sua volta al …”cambiamento climatico”; ma forse ha qualcosa a che fare anche con piani paesistici regionali rigettati o, all’opposto, adottati; e con piani urbanistici inesistenti o approssimativi. Nelle cui maglie sono scomparsi i saperi locali, tesori immensi di conoscenza tramandati da una generazione all’altra che ci dicevano subito cosa si doveva fare. e cosa non si doveva fare per assicurare stabilità e sicurezza ad una collettività insediata e al suo quadro di vita.  Cosa si doveva fare, sì: preservare il bosco a monte per impedire lo smottamento a valle; abbandonare le abitazioni una volta che le scosse raggiungono una certa combinazione di frequenza e intensità, di là da ogni rilevazione sismografica….  E cosa non si doveva fare: costruire in prossimità dei greti o addirittura al centro di un’antica fiumara, magari da qualche anno asciutta; o lottizzare. i terreni in corrispondenza di microfratturazioni geologiche, soprattutto appenniniche, di cui oggi conosciamo abbastanza bene la mappa, senza peraltro curarcene troppo, ma che da tempo immemoriale erano tenuti sgombri dalle popolazioni locali.  In realtà, non dovremmo più dimostrare l’importanza degli strumenti di regolazione urbanistica e territoriale, alle diverse scale: comunale, provinciale, regionale, nazionale, sovranazionale. Ma non ci stancheremo di invocarne il valore civico, la coerenza transcalare, la pertinenza in termini di sviluppo durevole dei territori.  Ecco perché riteniamo più che mai necessario sollecitare e condurre esperienze partecipative come “PUC Condiviso”: per consegnare all’intelligenza collettiva delle popolazioni insediate il disegno del futuro dei territori e presidiarne dal basso le regole, le forme e i tempi. E insomma per siglare quello che J P. Ferrier chiama “il contratto geografico”. Un’intesa forte che recupera la centralità dell’abitante, titolare di diritti fondamentali e di obblighi inaggirabili nei confronti del territorio-bene-comune e delle sue configurazioni più delicate e preziose: il paesaggio, l’ambiente, il luogo.  Così, nel mentre ci stringiamo attorno alle comunità, alle famiglie, rendiamo onore al martirio della Sardegna. Partecipando, in prima persona, alla costituzione delle regole di governance del nostro territorio. Per non diventare a nostra volta le vittime designate di qualche catastrofe che poi qualcuno per noi si incaricherà di chiamare “naturale”. O le vittime sacrificali di una marginalità annunciata che potrà accontentarsi ancora per qualche tempo di una mediocre conservazione dello status quo, o magari di una crescita senza sviluppo, ma che dovrà comunque pagare il prezzo altissimo dell’impoverimento culturale e dell’emigrazione dei giovani.

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