L’importanza di chiamarsi Stato (Islamico)

“gli Stati fanno le guerre per mettere il loro nome sulle carte geografiche”

(attrib. a Mohammed Ali in Quando eravamo re, Leon Gast, 1996)

Qualunque studente abbia anche solo distrattamente frequentato temi di geografia politica sa che uno Stato, per ritenersi tale, deve avere tre caratteristiche: territorio, popolazione e sovranità. In particolare quest’ultima ha due dimensioni: una “interna”, nel senso che l’autorità dello stato deve essere riconosciuta dai suoi cittadini, e una esterna, poiché lo stato deve ottenere il riconoscimento degli altri stati o, quantomeno, di quelli che hanno maggior peso nella comunità internazionale (su questo un approfondimento sulla recente approvazione di una mozione della Camera dei Comuni britannica, QUI). Questo elemento è particolarmente importante perché la comunità degli stati è – almeno in linea teorica – una comunità di pari; chi ne fa parte non può tollerare ingerenze nei propri affari interni e contribuisce, tramite lo stabilirsi di consuetudini e accordi, a dare corpo al diritto internazionale. Il riconoscimento della qualità statuale avviene, generalmente, a seguito di periodi di conflitto o, assai più raramente, come esito di processi pacifici (come nel caso della divisione in due stati della ex Cecoslovacchia) ed è un momento determinante per la definizione del nuovo status quo.

 

Se si tiene conto di questi elementi, certamente ben noti alle cancellerie di tutto il mondo (essendo l’ABC dei rapporti internazionali), appare assolutamente sorprendente (e perfino irresponsabile) il fatto che sia divenuta di uso comune la denominazione ISIS (o IS)condensata in “Stato Islamico”, per denominare non tanto un gruppo che contemporaneamente si definisce terroristico, ma un vasto territorio che questo gruppo tende a controllare militarmente. Ciò non avviene soltanto in ambito giornalistico, ma anche ufficiale: se Obama generalmente utilizza la formula “gruppo che chiama se stesso Islamic State” (QUI, minuto 1.38), ormai generalmente non si usa più neanche questa blanda cautela. Tra gli innumerevoli esempi possibili, prendiamo la trascrizione della conferenza stampa del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon (16 settembre 2014) pubblicata sul sito web delle Nazioni Unite (QUI): questa riporta, nella domanda rivolta al Segretario dalla giornalista Pamela Falk (CBS news): “My question is about the very difficult question of foreign terrorist fighters and ISIS [Islamic State in Iraq and the Shams]”. Le parentesi quadre indicano una precisazione redazionale inserita dallo staff delle Nazioni Unite, che traduce l’acronimo riportando senza remore (né perifrasi, come “il sedicente”) la dicitura di “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria”. Nello stesso testo l’uso dell’acronimo viene attribuito direttamente al Segretario Generale in una sua risposta a una domanda sull’Iraq (“This is all the more important when it comes to critical posts related to security in view of the threat the country is now facing, particularly by ISIL [Islamic State in Iraq and the Shams]”). Curioso notare come, in questo caso, ci sia anche una incongruenza “geografica”: l’acronimo usato da Ban Ki-moon terminava con la lettera L (per “Levant”: ISIL, Islamic State in Iraq and Levant è infatti uno degli acronimi usati in particolare dagli anglosassoni), ma evidentemente lo staff che trascrive le conferenze stampa ha avuto indicazioni di adottare “the Sham”, che in arabo sta per Siria, in luogo del più vasto e indistinto “Levant”. Così fa anche in questo caso, “correggendo” addirittura il Segretario Generale.

 

Quella sollevata sin qui potrebbe apparire una questione di secondo piano o di dettaglio, soprattutto di fronte ai disastri della guerra e alle atroci decapitazioni divenute ormai drammaticamente abituali nelle immagini dei media; in realtà è ben evidente come in questa guerra si stia puntando molto sull’uso dei media per la propaganda, ed esattamente quello dell’affermazione dell’esistenza di un soggetto statuale (lo Stato Islamico) appare tra i principali obiettivi – peraltro acquisiti – dei combattenti jhadisti.

 

Interessante in proposito il fatto che la denominazione sia nel tempo mutata, a rappresentare il salto di scala che i combattenti vogliono raggiungere. Se inizialmente si puntava all’Iraq e alla Siria o all’Iraq e al Levante (ISIS o ISIL), successivamente la connotazione geografica specifica è stata rimossa, passando a un più generico Islamic State (IS). In questo modo, puntando sull’elemento religioso, la denominazione può risultare più attrattiva (o insultante, a seconda del punto di vista, come si vedrà più oltre) su scala globale. Il risultato è anche quello di “occupare” l’immaginario collettivo: sui non-musulmani il continuo tam tam mediatico che mette in relazione “Stato Islamico” con efferatezza, inusitata violenza e terrore potrebbe provocare, nel breve quanto nel medio termine, effetti tanto gravi quanto facilmente prevedibili. D’altro canto è sufficiente un esperimento mentale per comprendere meglio la situazione. Immaginiamo che il gruppo estremista fosse stato cristiano. Al di là dell’auto-denominazione scelta, si sarebbe ugualmente diffusa a livello mondiale la definizione “Stato Cristiano”? Se mentalmente il primo pensiero che ci viene in mente fosse “i cristiani non fanno mica quelle cose”, l’”occupazione dell’immaginario” cui si faceva riferimento poco sopra diverrebbe ancor più chiara.

 

Se in molti casi la categoria di Stato può generare imponenti tensioni e persino crisi internazionali (è di ieri il riconoscimento della Palestina in quanto Stato da parte della Svezia, e la conseguente durissima reazione di Israele: vedi QUI e QUI), sembra che i portatori delle bandiere nere abbiano ottenuto uno dei risultati più notevoli con ferocissima semplicità, e viene allora da chiedersi se vi fosse una (più o meno inconscia) predisposizione all’accettazione dell’accostamento tra il concetto di Stato Islamico e quello di inusitata violenza.

 

La riflessione sulla denominazione non è però stata del tutto ignorata. In Francia, ad esempio, la direttrice dell’Associated France Press ha spiegato, in un editoriale (QUI) la scelta della prestigiosa agenzia di stampa di non utilizzare più la denominazione “Stato Islamico” (scelta per la verità contraddetta da alcuni titoli e didascalie dell’editoriale stesso). Michèle Lérindon motiva così la decisione: “Nous jugeons que l’expression « Etat islamique » est inappropriée pour deux raisons : un, il ne s’agit pas d’un véritable Etat, avec des frontières et une reconnaissance internationale. Et deux, pour de nombreux musulmans, les valeurs dont se réclame cette organisation ne sont en rien « islamiques ». Le nom « Etat islamique » est donc susceptible d’induire le public en erreur”. In sintesi: non si tratta di uno vero Stato e, per molti musulmani, i valori di questa organizzazione non hanno nulla di “islamico”; per questo la denominazione “Stato Islamico” potrebbe indurre il pubblico in errore e non la useremo. Lo Stato francese utilizza la denominazione “Daesh”; in questo articolo Lettera 43 dà credito all’ipotesi in base alla quale questo termine avrebbe un carattere peggiorativo per assonanza con “dèche” (rotto); France 24 riporta invece, come origine, una denominazione in arabo (QUI).

 

La riflessione sulla denominazione non si limita alla sola Francia: le autorità religiose egiziane suggeriscono l’uso di QSIS, che sta per “Al-Qaeda Separatists in Iraq and Syria”. A parte il riferimento ad Al-Qaeda, in questo caso appare evidente come la denominazione avrebbe un senso diametralmente opposto: definendo il gruppo come “separatista”, rafforzerebbe il concetto delle entità statuali di Siria e Iraq. Il che è perfettamente coerente con i possibili timori dell’Egitto, che, uscendo a fatica da anni di fortissime tensioni interne, può temere il fattore d’attrazione propagandistica che l’idea di uno “Stato Islamico” potrebbe rappresentare. Come riporta The Guardian (QUIanche un gruppo di Imam e organizzazioni di musulmani britannici premono affinché il loro governo rigetti la denominazione di “Stato Islamico”. Pure in Italia sono stati ripresi spunti di questo dibattito (tra gli altri, ad esempio La Stampa– ed Il Post), ma non sembra che la discussione si sia realmente focalizzata sulle questioni di fondo né che abbia avuto particolari esiti. Proprio per questo come LuogoeSpazio abbiamo deciso di occuparcene, considerando che alcune comuni nozioni di geografia politica, purtroppo, appaiano in Italia scarsamente diffuse. Il danno che potrebbe derivarne, anche nella prospettiva della convivenza tra culture differenti e considerata l’inerzia dell’immgainario collettivo, non è da sottovalutare.

 

Qualche ulteriore riferimento, tra i moltissimi offerti dalla rete:

 

http://www.washingtonpost.com/blogs/worldviews/wp/2014/09/17/france-is-ditching-the-islamic-state-name-and-replacing-it-with-a-label-the-group-hates/

All’inizio dell’articolo si mostra una vignetta “occidentale” che evidenzia la volontà di sottolineare l’elemento religioso nell’acronimo IS o ISIS (fonte della vignetta: http://chronicle.augusta.com/opinion/cartoons/2014-09-12/rick-mckee-editorial-cartoon)

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento