Prime considerazioni sul “piano Trump” per l’area della Palestina e sulla relativa comunicazione

29 gennaio 2020 – Come ormai d’uso, il Presidente statunitense Donald Trump è intervenuto attraverso la piattaforma Twitter per presentare il “Piano” che riguarda la regione geografica della Palestina e – a suo dire – una ipotesi di soluzione dell’annoso contrasto israelo-palestinese. In questo articolo si presentano alcune primissime considerazioni all’indomani dell’uscita pubblica del “Piano” (che è consultabile QUI, e riportato in fondo a questa pagina per facilità di consultazione).

La “cartografia” via Twitter

È molto significativo che la presentazione del “Piano” sia avvenuta attraverso il social media Twitter che, com’è noto, limita il testo a pochissimi caratteri, non prestandosi di certo alla trattazione di questioni complesse. La scelta è caduta dunque sulle immagini, che rappresentano carte molto schematizzate della possibile evoluzione territoriale: la soluzione di un problema pluridecennale, mediante la cartografia, può essere rappresentata come “semplice” e raggiungere direttamente, senza mediazioni esplicative, moltissime persone.

La stessa rappresentazione, in realtà, è estremamente significativa: poiché va disinvoltamente contro diversi decenni di posizioni delle Nazioni Unite ed è in contrasto con lo stesso diritto internazionale, è anche un ulteriore tassello verso l’archiviazione della funzione dell’ONU. A questo riguardo vi sono diversi riferimenti nel documento trumpiano, che liquida sdegnosamente il ruolo delle Nazioni Unite e formula anche una chiara “excusatio non petita” (Sezione 2, p. 5: “this Vision is not a recitation of General Assembly, Security Council and other international resolutions on this topic because such resolutions have not and will not resolve the conflict“).

Quello cartografico non è un approccio del solo Trump: anche il Presidente Turco Recep Tayyip Erdoğan ha utilizzato la strategia della “creazione di realtà territoriali” attraverso l’ampia diffusione di cartografia, proprio dal podio delle Nazioni Unite (si veda QUI), annunciando una invasione territoriale del Nord della Siria.

È interessante anche analizzare qualche dettaglio in più della comunicazione di Trump, attraverso la sequenza di tweet e la pubblicazione di carte tra loro diverse – non solo per la lingua.

 

Il flusso inizia alle 7.23 del 28 gennaio 2020: il primo tweet sul tema è in ebraico. Sono in questa lingua sia la frase introduttiva che la carta. Il traduttore Google così riporta in italiano la frase: “Starò sempre con lo stato di Israele e il popolo ebraico. Sostengo fortemente la loro sicurezza e il loro diritto a vivere nella loro patria storica. È tempo di pace!”. [Se l’immagine qui sotto non è visibile, attendere il caricamento]

 

ancora alle ore 7.23 del 28 gennaio 2020, ma dopo il tweet precedente, in risposta a se stesso Trump pubblica la stessa carta in inglese. Anche in questo caso non nomina affatto i palestinesi ma fa riferimento al diritto alla sicurezza dello stato di Israele (“I will always stand with the State of Israel“) e al diritto della sua popolazione a vivere all’interno della loro “historical homeland” (interessante definizione, che non si potrà qui approfondire; appare una sorta di riedizione del “National home for Jewish people” di Balfour). La connessione tra quest’ultimo concetto e la parte della carta che riporta il toponimo Israele (curiosamente per due volte, sia a Nord che a Sud) è auto-evidente. Sia nella versione in ebraico che in quella in inglese a Gerusalemme è riportata la stella, che simboleggia quella che Trump (con pochi altri paesi del mondo) riconosce ufficialmente come capitale di Israele:

 

Ore 7.26 del 28 gennaio 2020: nuovamente in risposta a se stesso, Trump posta anche una carta ma in arabo. Sembra la stessa, ma non è esattamente così; ci sono diverse differenze. Ad esempio, i punti di interesse per Israele non sono più rappresentati come numeri con relativa legenda ma come anonimi punti; si evidenziano maggiormente i simboli dei passaggi (tunnel e ponti; rispetto alle carte precedenti i simboli sono più grandi) che collegherebbero le porzioni di territorio palestinese. Quest’ultimo sarebbe privo di continuità territoriale e totalmente attorniato da Israele (ad eccezione della frontiera tra Gaza ed Egitto). Secondo il traduttore di Google la parte in arabo significa: “Questo è come potrebbe apparire il futuro stato della Palestina con una capitale in alcune parti di Gerusalemme est“. Quest’ultimo riferimento è di grande importanza; ci torneremo più oltre; intanto si segnala però che, in questa versione della carta, la stella è scomparsa. Graficamente sul territorio giordano, emerge una dicitura prima assente. La vedremo meglio nella versione inglese, presumendo ne sia la traduzione. Il toponimo “Israele” non compare più due volte, ma solo una; “Palestina” non c’è. Non c’è neppure, nel testo, una menzione del popolo palestinese (che ci si poteva attendere, se si fosse seguito lo schema dei tweet precedenti). A margine, si nota anche che sia in questa carta che nelle successive, le alture del Golan, occupate militarmente alla Siria durante la guerra dei sei giorni (in alto a destra), vengono semplicemente ricomprese nel territorio di Israele pur non essendovi mai stato un accordo di pace. Verso il Libano è invece riportata correttamente la linea armistiziale, tratteggiata.

In un’ultima risposta a se stesso sul tema, ancora alle 7.26 del 28 gennaio 2020 Trump posta l’edizione in inglese della carta destinata al pubblico arabo. Il testo introduttivo recita: “this is what a future State of Palestine can look like, with a capital in parts of East Jerusalem”. Da notare che la definizione “Stato di Palestina” non compare affatto sulla carta. La dicitura già ricordata, posta graficamente in Giordania, recita: “All Muslims who come in peace will be welcome to visit and pray at the al-Aqsa Mosque”.

 

Si notano, a Sud, due aree contrassegnate rispettivamente da un simbolo di una industria (High-tech manufacturing industrial zone) e di una casa (Residential and agricultural), che paiono configurarsi come indennizzi per compensare i territori che verrebbero “concessi” dal Piano Trump ad Israele lungo tutto il (fertile) bacino del Giordano, assieme agli insediamenti in Cisgiordania.

Vediamo più nel dettaglio questa porzione di territorio, in una immagine che sovrappone la carta di Trump alle foto satellitari di Google Earth:

Dall’ingrandimento emergono chiaramente due elementi: si tratta di aree totalmente desertiche (anche se nel piano Trump la più a Sud è etichettata come “agricultural”) che NON confinano con il vicino Egitto. Le macchie verdi corrono parallele al confine, ma da esso distanti. Non si tratta di un errore di sovrapposizione dell’immagine: tra queste aree e l’Egitto è prevista una fascia di controllo israeliano che le separa dal confine. Come per gli altri territori, sono delle enclave (senza essere così definite, al contrario degli insediamenti israeliani – quelli indicati con dei numeri – sulle carte pensate per il pubblico israeliano) attorniate da Israele. Sarebbero connesse al resto dell’ipotetico Stato di Palestina solo mediante una strada che le collegherebbe a Gaza, totalmente avulse – con tutta evidenza – dal resto delle porzioni territoriali palestinesi.

 

“parts of East Jerusalem”

Nel tweet di Trump rivolto alla componente araba si fa riferimento ad una possibile capitale palestinese situata in “parts of East Jerusalem”. È interessante, allora, utilizzare la carta proposta da Trump per analizzare più da vicino anche questa porzione di territorio. Gerusalemme è, come noto, città sacra alle tre religioni monoteiste; storicamente viene identificata come “Gerusalemme Est” la porzione non conquistata da Israele nella prima guerra arabo-israeliana (1948-49) e rimasta sotto il controllo della Giordania tra il 1949 e la Guerra dei sei giorni (1967). In questa porzione c’è anche la città vecchia, ovvero quella entro le mura di Solimano “il Magnifico”.

Ma qual è la Gerusalemme Est cui si riferisce Trump? E qual è la porzione di territorio che possiamo chiamare Gerusalemme?

Proviamo a vederlo attraverso l’evoluzione dei confini amministrativi della città, utilizzando una sovrapposizione di immagini e mantenendo sullo sfondo la “carta Trump”.

La città vecchia di Gerusalemme, quella che contiene i luoghi sacri e cinta dalle mura, è la piccola macchia bianca, tendezialmente trapezioidale, che compare qui di seguito attorniata dalla linea marrone a fianco alla circonferenza anch’essa bianca:

 

1: Sotto il mandato britannico (1923-1947) la città di Gerusalemme era stata già molto estesa rispetto alla “città vecchia”. I suoi limiti amministrativi erano quelli visibili qui sotto (la macchia arancione):

 

2: Dopo la prima guerra arabo-israeliana, nel periodo tra il 1949 e il 1967 la città fu divisa in due: la “città vecchia” rimase sotto il controllo della Giordania che espanse, per quell’area, il limite amministrativo del mandato britannico (macchia verde). Lo stesso è avvenuto ad opera di Israele che, pur non riuscendo a conquistare la città vecchia, ha preso il controllo della parte ovest ampliando notevolmente i limiti amministrativi (macchia celeste):

 

3: Dopo la Guerra dei Sei giorni (1967-oggi) Israele ha acquisito il controllo militare fino al Giordano. Anche se la risoluzione 242 del 1967 le imponeva di ritrarsi dai “territori occupati” (così si individuano secondo il diritto internazionale e i documenti delle Nazioni Unite tutti quegli spazi che erano stati occupati militarmente dopo il 1967, senza distinzione tra lo spazio di Gerusalemme e l’altra porzione della CIsgiordania), Israele non ha mai dato seguito alle indicazioni del Consiglio di Sicurezza e, piuttosto, ha espanso moltissimo il limite amministrativo di Gerusalemme. Si noti, a nord, l’estensione ramificata per comprendere la struttura areoportuale, visibile come linea chiara inclinata da Nord-Ovest a Sud-Est. Questa estensione non è riconosciuta dalle Nazioni Unite, per le quali vige ancora la linea armistiziale pre 1967, denominata linea verde (molto sottile e di colore rosso nell’immagine sottostante).

Come si vede, dunque, quando Trump fa riferimento a una possibile capitale palestinese situata in “parts of East Jerusalem” indica in realtà una porzione di territorio che non è definibile come Gerusalemme Est ma, piuttosto, come uno “spazio ad Est di Gerusalemme”. Questo anche se si considera la vastissima estensione amministrativa identificata da Israele, unilateralmente, come Gerusalemme .

Le “parti di Gerusalemme” citate da Trump (nell’immagine qui sopra, è il punto bianco e lo spazio verde sottostante; l’etichetta del toponimo “Gerusalemme”, a differenza delle carte precedenti, in quelle dedicate agli arabi è posta ad Est della città) né oggi né in precedenza sono state considerate amministrativamente come parte della città di Gerusalemme.

Pur senza denominarla la “carta Trump” mostra, al contempo, una “Grande Gerusalemme” israeliana che si estenderebbe, comprendendo l’insediamento di Ma’ale Adumim e il cosiddetto progetto E1, fin quasi al Giordano, tagliando lo spazio dell’ipotetico stato palestinese lungo un asse Ovest-Est.

Anche se molti lo giudicano funzionale alle necessità elettorali del Presidente USA e di quello Israeliano, per il suo significato geopolitico e per il suo impatto sull’equilibrio medio-orientale sarà certamente utile tornare sul “Piano Trump”, approfondendo il documento che segue e quanto esposto dalla presidenza USA nel sito dedicato (https://www.whitehouse.gov/peacetoprosperity/).

Ma già le modalità di diffusione e le carte presentate attraverso Twitter ci sono sembrate meritevoli – da un punto di vista geografico – di queste prime considerazioni.

 

Il “Piano Trump” (anche denominato Peace to prosperity) (scaricato il 29 gennaio 2020 alle ore 16 da questo link: https://www.whitehouse.gov/wp-content/uploads/2020/01/Peace-to-Prosperity-0120.pdf)

Peace-to-Prosperity-0120