NIGER: UN (ALTRO) GOLPE PER LA DEMOCRAZIA?

di Angelo Turco

L’articolo qui proposto compare sul bel numero di aprile di NIGRIZIA (www.nigrizia.it). E’ pubblicato anche in Luogoespazio.info grazie alla cortesia della rivista e dell’autore.

 

Nel solco della loro tradizione interventista, giovani ufficiali hanno ritenuto non costituzionali le scelte del presidente (referendum e prolungamento del mandato per tre anni) e affermano di voler restituire al più presto il potere ai civili. Cauta la comunità internazionale. Il paese, terzo produttore mondiale di uranio, è stato sospeso dall’Unione africana.

 

Il 18 febbraio 2010, nel corso di un incontro del consiglio dei ministri, il presidente del Niger, Mamadou Tandja, è stato deposto con un colpo di stato, condotto dal comandante Salou Djibo. Un’operazione lampo, durata un paio d’ore, che è costata la vita solo ad alcuni soldati, data la sostanziale connivenza della guardia presidenziale con i golpisti. In realtà, tutte le forze armate erano d’accordo sulla prova di forza, fatta eccezione per alcuni alti gradi dell’esercito, ben installati nel sistema di potere costruito da Tandja e messi preventivamente in condizione di non nuocere.

 

Il presidente destituito ha commesso l’errore di contare sulle rassicurazioni dei vecchi generali, mentre a Niamey tutti erano al corrente che si stava preparando qualcosa. E in Niger, quando si prepara qualcosa, sono i giovani ufficiali a muoversi. Non a caso Tandja, allora appena trentaseienne, aveva partecipato al colpo di stato del 1974, che aveva portato alla caduta del primo presidente, Hamani Diori, e spianato la via del potere a Seyni Kountché, il comandante carismatico che ha conferito all’esercito nigerino quella particolare vocazione ad agire, quando i supremi interessi dello stato sono ritenuti in pericolo per un motivo o per l’altro.

 

Il Niger oggi è indicato all’ultimo posto nella classifica di 182 paesi in termini di indice di sviluppo umano (Isu – 0,340 su un massimo di 1) dal rapporto 2009 del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Ciò nonostante, gli occhi della comunità internazionale si sono incollati sulla scena nigerina, perché in questa fase storica il paese presenta aspetti geopolitici delicatissimi.

 

Il Niger è il terzo paese produttore di uranio, dopo il Canada e l’Australia. Ed è certamente soltanto un caso – ma denso di significato – che il golpe sia avvenuto due giorni dopo l’annuncio di Barack Obama sulla ripresa del programma nucleare americano, interrotto 31 anni fa, in seguito all’incidente occorso alla centrale di Three Mile Island, nei pressi di Harrisburg, capitale della Pennsylvania. E ciò, in uno scenario di ripresa globale della ventata nuclearista, di cui l’Italia, nonostante il referendum del 1987, si pone come uno dei capifila, perlomeno a giudicare dalle dichiarazioni governative. È grazie a questa ripresa mondiale che, da un paio d’anni, si è scatenata una vera e propria corsa all’uranio.

 

In Niger si è giocata una partita piuttosto dura negli anni scorsi, quando i contratti sono venuti a scadenza e si è trattato di rinnovare i permessi di concessione e di rinegoziare le condizioni di sfruttamento del minerale. L’irruzione dalla Cina sul mercato africano dell’uranio ha fatto subito capire che per Areva, il colosso nucleare francese numero uno al mondo, la rinegoziazione non sarebbe stata una passeggiata. Tanto più che l’uranio nigerino è vitale per la società francese. L’Areva, infatti, deve il suo immenso potere al fatto che controlla il ciclo integrale del nucleare: dall’estrazione della materia prima alla consegna di centrali atomiche, chiavi in mano. Su questo mercato la tecnologia è essenziale, ma l’alimentazione delle centrali è parte integrante della commessa: senza uranio, niente centrali. L’accaparramento delle fonti uranifere è, dunque, strategico, se si pensa che la domanda di minerale per usi civili è di gran lunga superiore all’offerta.

 

Affari

Con le sue riserve ingenti di uranio, facilmente estraibile dalle miniere a cielo aperto dei deserti del nord, il Niger ha condotto assai bene la fase di rinegoziazione, spuntando royalty notevolmente più elevate da Areva, di cui ha eroso il monopolio, grazie ad accordi con India, Canada, Australia, Sudafrica e, soprattutto, Cina. Quest’ultima ha anche firmato (giugno 2008) il più importante contratto energetico (5 miliardi di dollari) per la prospezione e lo sfruttamento del giacimento petrolifero di Agadem, nel bacino del Termit, 1.000 chilometri ad est di Niamey. Insomma, un circolo virtuoso, fatto di maggiori produzioni, royalty più elevate, cessioni dirette sul mercato.

 

Dalla manna uranifera ci si aspettavano sostanzialmente due cose. Da una parte, la rimessa in moto del settore statale, tanto nel campo dei lavori pubblici quanto in quello dei servizi, sanità e istruzione in primo luogo. Dall’altra parte, moltissime speranze si aprivano nelle zone rurali, poiché le nuove risorse avrebbero dovuto finalmente finanziare la riforma del decentramento e, quindi, garantire il radicamento vero della democrazia, con cariche elettive locali capaci di avviare politiche dei servizi e meccanismi trasparenti di sviluppo.

 

In questo quadro s’iscrive la questione tuareg, a lungo osteggiata frontalmente dal presidente Tandja, risoluto assertore dell’opzione militare, al contrario del suo omologo maliano, Mamadou Toumani Touré, che è alle prese con lo stesso problema. Negli ultimi tempi, Tandja aveva rivisto le sue posizioni in direzione di una maggiore autonomia del Temust n Imajeghan (il paese dei tuareg), come pure di una partecipazione agli introiti uraniferi, che provengono tutti dal massiccio montuoso dell’Aïr.

 

Resta scandalosamente aperta la questione delle norme di sicurezza sul lavoro, ancora del tutto ignorate, quando ormai si sa che le popolazioni del deserto pagano un pesante tributo sanitario all’industria estrattiva. Ad ammalarsi sono i minatori – che inalano polveri su polveri senza protezione alcuna -, ma anche le comunità che vivono intorno alle miniere a cielo aperto ed assorbono radon, il micidiale gas radioattivo che emana dalle rocce del sottosuolo.

 

Tutto ciò appare tanto più delicato in quanto riguarda un’area remota in cui, da tempo, i servizi di informazione di mezzo mondo segnalano tentativi d’infiltrazione delle multinazionali del terrorismo. Qui le bande potrebbero operare al coperto di uno spazio repulsivo, difficilmente controllabile dalle forze di sicurezza. Per questo motivo, la fascia sahelo-sahariana è diventata da tempo una sorta di zona franca per i traffici illegali di ogni specie: droga, armi, esseri umani. Una faccenda, quest’ultima, che ci riguarda da vicino, perché è nell’Aïr che si trovano i terribili hub, dove si raccolgono i migranti provenienti da tutta l’Africa occidentale, prima di essere avviati verso le sponde del Mediterraneo dalle catene malavitose che operano nei vari paesi con diversi ruoli ma in impeccabile sinergia criminale.

 

La deriva di Tandja

In buona sostanza, Mamadou Tandja – eletto presidente nel dicembre 1999, quando era già un militare in pensione, e riconfermato in carica nel dicembre 2004 – aveva costruito sull’uranio un deciso successo economico e politico, posizionando bene il suo paese sullo scacchiere strategico mondiale come fattore di equilibrio tra gli interessi francesi, cinesi e americani. Ma è stata probabilmente la tentazione di “dover terminare il lavoro” che l’ha portato alla fine. Il demone neo-patrimonialista, infatti, ha avuto la meglio sulla sua vocazione istituzionale. Come lasciare in mano ad altri la manna uranifera, con il rischio di essere estromesso dal banchetto? E come garantire che le ricchezze di nuova acquisizione prendano la via giusta, in presenza di un personale politico sulla cui probità è lecito nutrire più di un dubbio? Il presidente, quindi, deve aver valutato che, a conti fatti, proprio per una corretta gestione della finanza mineraria, una sua permanenza negli affari di governo poteva essere il male minore. Così, il 4 agosto scorso, con un referendum vinto con il 92,5% dei voti, aveva fatto approvare un prolungamento della sua presidenza per 3 anni, in vista di una modifica della costituzione che togliesse il vincolo dei due mandati alla carica suprema dello stato.

 

I militari si sono fatti presto l’idea che Tandja si stesse muovendo in un quadro di illegittimità costituzionale, avendo operato un colpo di stato strisciante. E hanno preso a inviargli avvertimenti neanche tanto criptici nei mesi che precedevano la scadenza del mandato (fine dicembre). Intanto, però, si preparavano ad agire, interpretando la loro missione di “esercito repubblicano”, che difende non solo gli interessi della patria e la sua integrità territoriale, ma anche le istituzioni democratiche e gli interessi primari del popolo.

 

Su queste stesse basi aveva agito il già citato Seyni Kountché nel 1974 contro Hamani Diori, ritenuto incapace di gestire le crisi dovute alla siccità, che avevano messo in ginocchio il paese. Allo stesso modo aveva agito nel 1996 Ibrahim Barré Mainassara, giovanissimo aiutante di campo di Kountché, contro il governo civile di Mahamane Ousmane, il primo presidente democraticamente eletto nell’aprile 1993, in seguito ai lavori della Conferenza nazionale sovrana, che avevano portato alla nuova costituzione (1992) e alle prime elezioni libere (febbraio 1993). Sia nell’uno che nell’altro caso, i civili furono accusati – e non senza ragione – d’involuzione autocratica, d’inefficienza, di corruzione e d’incapacità a pensare un progetto di società. Per ironia della sorte, lo stesso Ibrahim Barré fu assassinato dalla guardia presidenziale il 4 aprile 1999, dopo una settimana di tensioni durante la quale l’opposizione aveva chiesto le sue dimissioni: i suoi militari lo ritennero colpevole di essersi troppo attaccato al potere e di non volerlo restituire ai civili, pur avendo l’esercito esaurito il suo compito “repubblicano”. Il leader dei golpisti, Daouda Mala Wanke, fu nominato presidente e capo del consiglio nazionale per la riconciliazione e governò il paese per un periodo di transizione di nove mesi, fino all’elezione di Mamadou Tandja, nel dicembre di quell’anno.

 

Proprio in forza di questa tradizione interventista, i militari autori del recente golpe si sono costituiti in un Consiglio supremo per la restaurazione della democrazia e affermano di non essere per nulla interessati al potere, ma solo alla rimessa in moto del processo democratico. Dicono di essere fin d’ora al lavoro per trasferire in tempi brevi il potere ai civili. Un primo ministro civile è stato effettivamente già nominato: Mahamadou Danda, un uomo che ha prestato la propria opera nella transizione seguita al precedente golpe. Il gabinetto ministeriale, costituito in maggioranza da civili, è in via di completamento.

 

Nel frattempo, i membri del dissolto regime riacquistano gradualmente la loro libertà di movimento. Alcuni collaboratori di Tandja sono addirittura entrati nel governo di transizione. Quanto al presidente, egli resta custodito in una villa della capitale «per motivi di sicurezza». I golpisti sottolineano che il Niger non è la Guinea e che tra loro non c’è posto per un Moussa Dadis Camara (il capitano che ha preso il potere dopo il colpo di stato del 23 dicembre 2008, dopo la morte del presidente guineano Lansana Conté; Camara, dopo aver subito un attentato, è stato sostituito alla presidenza ad interim dal generale Sékouba Konaté).

 

Sia nei circoli che contano che nei quartieri popolari, la gente a Niamey pensa che i militari parlino con lingua dritta. Il leader dei golpisti, Salou Djibo, parlando alla radio il 3 marzo, ha detto: «La nostra unica ambizione è quella di accompagnare il paese nel ritorno alla democrazia ». Ha poi promesso elezioni presidenziali quanto prima, anche se non ne ha definito la data: «Per garantire lo svolgimento sereno e imparziale della consultazione, c’impegniamo a far sì che nessun membro del governo di transizione si presenti come candidato».

 

La comunità internazionale resta cauta, limitandosi ad auspicare un rapido ritorno alla legalità costituzionale. La stessa Unione africana, pur procedendo alla sospensione del Niger, mostra una sostanziale tolleranza nei confronti del Consiglio supremo per la restaurazione della democrazia e del suo capo, il comandante Salou Djibo. La Francia segue la stessa linea, con occhi attenti ai propri interessi.

 

Insomma, tutto lascia credere che i militari manterranno i loro impegni. Si tratta di vedere, poi, quanto tempo ci metterà la rissosissima classe politica nigerina a riconsegnare il paese agli uomini in uniforme. A quando il prossimo golpe?

Copyright: Angelo Turco e rivista NIGRIZIA

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento