“UAK UAK, ‘IBAD ALLAH” O IL SEDILE VUOTO

di Luogoespazio (R.B.)

Questo non è un articolo scientifico. Questo forse non è nemmeno un articolo di geografia. Non mi stupirei se non fosse un articolo e basta. Questo è forse più simile ad un racconto, ma forse non è nemmeno questo. Di sicuro parla di geografia. Perché oggi ho vissuto la geopolitica, oggi ho sperimentato la sofferenza e il dolore che provoca uno dei suoi concetti chiave: il confine. Oggi, ho sentito per la prima volta la sua violenza e la disperazione di chi si trova dalla parte sbagliata.

 

Air France, volo Parigi-Casablanca delle ore 15.25. Arrivo al gate, estraggo distrattamente il mio passaporto col colore magico-passe-partout, il bordeaux che caratterizza tutti i passaporti dei cittadini dell’UE, e che segna la ‘distinzione’ rispetto al verde banale dei cittadini marocchini, lo presento alla hostess di terra che mi augura buon viaggio. Salgo sulla navetta, le porte si chiudono, l’autista mette in moto e percorriamo un lungo percorso per la pista dell’aeroporto che ci conduce infine davanti all’aereo. L’autobus si ferma, le porte non si aprono.

Avrei dovuto chiedermi perché. Invece continuo a pensare a cosa avrei fatto nelle 3 ore che mi separavano da Casablanca: scrivere un articolo in scadenza oppure immergermi nella lettura dell’ultimo libro sulla situazione delle migrazioni in Francia e sulle dinamiche postcoloniali (Bancel et al. cura, 2010, Ruptures postcoloniales, La Découverte)? Tutto avrei pensato tranne che quelle dinamiche che mi aspettavo di leggere si sarebbero materializzate di lì a qualche minuto davanti ai miei occhi, mai avrei immaginato che le parole del libro sarebbero penetrate nella mia testa attraverso un grido lacerante.

Guardo nel bus le persone intorno a me, cercando di capire le loro storie e le loro traiettorie di migrazione. Poi giro istintivamente la testa verso destra e vedo delle persone salire la scaletta posteriore dell’aereo. Sullo sfondo intravedo la camionetta della polizia. Comincio a capire. Il volo sul quale sto per imbarcarmi probabilmente è uno dei voli usati per rimpatriare i sans papiers. Ne ho la certezza quando ci fanno tutt* salire dall’entrata anteriore dell’aereo. Le assistenti di volo mi danno il benvenuto mentre il comandante dà un annuncio che non riesco a capire. Non lo riesco a capire perché c’è un altro rumore di sottofondo. Mentre percorro il corridoio mi sforzo di pensare che si tratti di un problema con il microfono, della linea disturbata. Più mi avvicino al mio posto, il 27 C, la terz’ultima fila dell’aereo, più il rumore si fa insistente. Arrivata a metà dell’aereo, era già diventato un lamento. Quando giungo alla mia fila diventa un grido, un grido disperato che mi assale violentemente e quasi mi fa barcollare, come una raffica di vento gelido, come uno schiaffo arrivato all’improvviso…

Nell’ultima fila un ragazzo sedeva in mezzo a due poliziotti in borghese, le mani dietro alla schiena, la testa riversa indietro. Mi siedo diligentemente al mio posto, cercando di respirare profondamente per non sentirmi male. Ma non serve a niente. Ripete una frase, sempre la stessa. Riesco a capire solo la parola Allah, penso quindi che invochi la misericordia di Dio, che sia una sorta di intercalare che riguarda Dio, come ce ne sono tanti nella lingua araba. Il grido diventa un urlo, un urlo disperato che mi entra nel corpo, mi avvolge completamente, mi impedisce di pensare ad altro che alla disperazione di quel ragazzo che due poliziotti stavano rimpatriando su un volo di linea. Sapevo di queste episodi, ne avevo sentiti tanti, solo che questo era il MIO volo. Vedendomi evidentemente turbata, un assistente di volo mi invita a cambiare posto. Io rifiuto. Resto lì, ferma, quasi composta, senza reagire a quell’urlo disperato che mi maltratta, mi scuote, mi sconvolge, mi trapassa.

Poi penso ad un articolo di giornale (Il Manifesto, 18 dicembre 2004) che avevo letto in rete e che aveva come protagonista l’antropologo italiano Franco La Cecla. Mi ricordavo che si fosse trovato in una situazione simile: volo Parigi-Dakar, un sans papiers rimpatriato, La Cecla che chiede di scendere dicendo “Non potete renderci complici di tanta sofferenza”. La Cecla viene fatto scendere. E arrestato (poi subito rilasciato). I dettagli però non li ricordavo. Telefono in Italia e chiedo di cercare l’articolo in internet. La Cecla aveva reagito alle violenze che i poliziotti stavano facendo al ragazzo per costringerlo a tacere, aveva obbligato il comandante a farlo scendere e, una volta a terra, era stato arrestato per aver ritardato la partenza del volo. Aveva poi dichiarato ai giornali: “Le scene che ho visto sull’aereo sono terribili. Eseguire i rimpatri con i voli di linea significa costringere i civili a collaborare e ad assistere a tutto quel dolore. Io non sono tenuto a farlo” (http://www.guidasicilia.it/ita/main/news/index.jsp?IDNews=15246).

Io cosa dovevo fare? La situazione era simile ma non uguale. I poliziotti non lo maltrattano, cercano anzi di tranquillizzarlo, così come il comandante dell’aereo e una donna marocchina che si offre di parlargli, non ottenendo nessun risultato. Il ragazzo continua a gridare la stessa frase, in maniera ripetitiva, come in trance. A scadenza regolare aggiunge: “’aindi muskil fi l’maghrib”. Questa la capisco: “Ho problemi in Marocco”. Poi dice in francese “Non abito in Marocco, abito nel Polisario, è guerra col Marocco!”. E poi riprende a gridare la stessa frase che finisce con Allah.

Con quella frase, il ragazzo voleva dire che essere rimpatriato significava per lui andare in prigione direttamente e per lungo tempo, destino comune a tutti gli oppositori politici e i militanti per la liberazione del Sahara Occidentale. Era prassi quotidiana sotto il regno di Hassan II, non è raro sotto il regno di Muhammed VI, nonostante l’immagine di monarchia illuminata e glamour veicolata dalla stampa straniera. Le contraddizioni del suo regno e i soprusi sono ben spiegati nel recente libro di Ali Amar, giornalista del famoso Le Journal Hebdomadaire (Muhammed VI. Le grand malentendu, 2009, Calmann-Lévy).

Intanto un bambino si mette a piangere, una donna viene presa da un attacco di panico, un’altra scoppia in lacrime. Il ragazzo non interrompe il suo urlo disperato, ipnotico. Io continuo a essere paralizzata. Non so cosa fare. Dovrei fare come La Cecla? Ma appellandomi a cosa? I poliziotti si stavano comportando ‘bene’ e in più sono dalla parte del ‘giusto’ perché applicano una legge dello Stato. Niente era fuori ‘norma’.

Ed è questo il paradosso. Quel paradosso che ti lacera dentro, quel senso di impotenza di fronte alla legge dello Stato. Lo Stato che con la motivazione di proteggerti dall’invasore, ti paralizza, ti getta addosso un senso di impotenza, ti fa interiorizzare l’idea di non poter esercitare un ruolo attivo per lasciare spazio ad una cittadinanza subita che resta solo un attributo normativo (statale).  Lo Stato che ti obbliga a renderti complice di un reato, un reato che non può essere quello di spostarsi da un paese all’altro e attraversare un confine, come ha fatto il ragazzo, ma che di sicuro lo è l’atto di condannare qualcuno alla prigione in un paese in cui non è c’è uno stato di diritto. “Non è detto che sia vero”, dice qualcuno dei passeggeri. Molti migranti, infatti, chiedono lo statuto di rifugiati per non essere rimpatriati, è cosa comune. Forse. Ma la sua sofferenza è vera, il suo dolore e la bava che gli esce dalla bocca. Quello è tutto tremendamente vero, è lì, materializzato davanti ai miei occhi.

Continuo a non fare niente.

Intanto il comandante si avvicina di nuovo al ragazzo che dice in francese “Ho problemi in Marocco” e lui risponde “Anch’io ho i miei”. Sì perché la cosa più grave in questa storia per il personale dell’aereo e per l’aeroporto francese era il ritardo della partenza…

Epilogo: i poliziotti si alzano, sollevano il ragazzo ormai privo di forze e gli dicono “L’hai voluto tu, adesso te ne vai in prigione”. Pare sia la seconda volta che avviene la stessa cosa, la prima su un volo della Royal Air Maroc. Pare lo rimpatrieranno in nave… Forse un urlo disperato è più consono ad nave che ad un aereo? Forse la grandezza di una nave permetterà di disperdere il suo grido, cosa non possibile nello spazio claustrofobico della cabina di un aereo… Intanto il comandante fa il suo annuncio rituale con una piccola variante “Air France ha il piacere di accogliervi a bordo. Ci scusiamo per questa partenza… movimentata”.

Non ho fatto niente. Mi sono resa complice. Anche per oggi il potere diffuso e la gouvernamentalité che ne deriva (M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 2005 e Microfisica del potere: interventi politici, a cura di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino, Einaudi, 1977) hanno vinto…

Poi una cosa, almeno, l’ho fatta: mi sono alzata sfidando l’equilibrio precario delle mie gambe, ho aperto la cappelliera, ho tirato fuori il computer e, nonostante le mani che mi tremavano, ho cominciato a scrivere…

p.s.: il ragazzo, mi ha spiegato l’uomo seduto accanto a me, gridava “Uak, uak, ‘Ibad Allah”. Non faceva appello a Dio bensì al popolo di Dio, il suo urlo disperato era diretto ai passeggeri dell’aereo perché intervenissero e impedissero la sua disgrazia. Invocava l’aiuto della gente, non di Dio. Già, perché Dio in tutto questo non c’entra niente… Sono le persone che fanno le leggi. Sono sempre le persone, però, che possono scegliere di agire per cambiarle…


Nel 1975 il Marocco ha occupato il Sahara Occidentale, prima possedimento spagnolo. La popolazione però rivendica l’indipendenza, dando vita ad una guerriglia col governo centrale che dura dagli anni Settanta (per una rassegna bibliografica sull’argomento si veda http://www.saharawi.org/tesi/rosa/Rosa-BIBLIOGRAFIA.htm).

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